09/03/2016

Unioni civili: il NO di ProVita, davanti ai Deputati

Oggi, 9 marzo 2016, ProVita, a proposito del ddl sulle unioni civili (alias matrimonio gay), è stata convocata davanti alla II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, che sta esaminando il testo approvato rocambolescamente dal Senato.

Il Presidente, Antonio Brandi, e il nostro portavoce, Alessandro Fiore, hanno esposto davanti agli Onorevoli le seguenti riflessioni.

Illustre Commissione,

ringraziamo per la possibilità di esprimere le ragioni di ProVita onlus sulla questione delle unioni civili e della disciplina delle convivenze, ed entriamo subito nel merito.

Le unioni civili sono caratterizzate da un regime sostanzialmente identico a quello del matrimonio: vengono richiamati tutta una serie di articoli del codice civile specifici al matrimonio; si prevede un identico regime patrimoniale, successorio, per gli impedimenti; il comma 20 addirittura compie questa parificazione a ogni livello dell’ordinamento. Anche laddove il testo non richiama direttamente gli articoli del codice civile, riprende letteralmente la disciplina matrimoniale. Ad esempio il comma 7 è in realtà una riproduzione dell’art. 122 c.c., il comma 11 è una riproduzione dell’art. 143 c.c. Ora il rispetto dell’articolo 29 cost. richiede che l’unicità del regime matrimoniale sia salvaguardato non solo “a parole” (come indicherebbe la dichiarazione di principio di cui al comma 1) ma anche sostanzialmente, di diritto e di fatto. Eppure c’è una sostanziale sovrapposizione, in tutti i sensi, tra unione civile e matrimonio: se per assurdo il comma 1 avesse disposto che “l’unione civile si fonda su una interpretazione estensiva dell’art. 29 cost.”, non ci saremmo stupiti di trovare esattamente la stessa disciplina che viene prevista in questo ddl e – anzi – forse l’avremmo trovata più coerente. La disciplina è incostituzionale quindi perché nonostante la Costituzione, come ribadito dalla Corte costituzionale nelle note sentenze 138/2010 e 170/2014, vieti di equiparare altre unioni al matrimonio, questa equiparazione viene realizzata dal provvedimento in questione, violando altresì il principio di uguaglianza che impone di trattare diversamente situazioni diverse.

Alcuni hanno pensato che togliere la c.d. stepchild adoption dal disegno di legge sulle unioni civili avrebbe evitato la possibilità di adozione per coppie omosessuali. È un grave errore: sappiano i rappresentanti del popolo che, a causa della sostanziale equiparazione alla disciplina matrimoniale esso porta direttamente alle adozioni omosessuali. È noto quanto la giurisprudenza della CEDU sia influente sullo sviluppo del diritto nazionale. Ebbene, mentre la Corte non ha statuito un obbligo per gli Stati di introdurre il matrimonio omosessuale, ha tuttavia enunciato il principio (ad esempio nella sentenza contro l’Austria del 19 febbraio 2013) che, se l’unione omosessuale viene assimilata a un’altra realtà, privarla di diritti che spettano a quest’ultima sarebbe discriminazione. Ora l’unione omosessuale in questo disegno di legge non solo viene assimilata al matrimonio ma viene anche espressamente riconosciuta come forma di “famiglia”: è quanto si evince dal comma 12 in riferimento alla “vita familiare” e da altri rimandi al codice civile. Le adozioni quindi rientreranno dalla finestra in quanto si pongono le premesse perché l’Italia venga condannata dalla CEDU per una disparità di trattamento nei confronti dell’unione civile.

Al comma 7 notiamo un’incongruenza che utilizzeremo come argomento ad hominem. Riguardo alla possibilità di impugnare l’unione civile per errore essenziale sulle qualità personali, viene ripreso quasi tutto l’art. 122 c.c. tranne l’ipotesi di cui al numero 5, cioè “lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore”. Ora se è ovvio che la previsione non si può applicare a due uomini, nella logica del ddl non si comprende perché la norma non debba applicarsi a due lesbiche, una delle quali potrebbe contrarre l’unione per errore sullo stato di gravidanza dell’altra causato da un terzo.

Altro punto di incoerenza è stato da molti messo in rilievo e riguarda l’obbligo di fedeltà, escluso dal comma 11. A prescindere dal merito, quest’esclusione resta incoerente da qualunque punto di vista la si guardi. O si dice, come sosteniamo noi, che il rapporto omosessuale non è meritevole di riconoscimento pubblico, e allora non ha senso la fedeltà, e tantomeno l’istituto delle unioni civili; oppure se, per ipotesi, il rapporto tra due omosessuali fosse meritevole di riconoscimento pubblico e di tutela, allora non si capisce perché l’obbligo di fedeltà dovrebbe essere escluso. Le unioni civili così formulate istituzionalizzano un’unione potenzialmente libera e aperta a relazioni affettive e sessuali con altre persone. A questo punto lanciamo una provocazione: perché limitare l’unione civile a due persone? Perché non aprirla a 3 o 4 persone che si vogliono bene e hanno relazioni affettive?

In realtà questo problema riguarda le unioni civili in sé e per sé, indipendentemente dalla sussistenza dell’obbligo di fedeltà: si è creato un istituto equivalente al matrimonio ma senza la funzione sociale del matrimonio. Nel matrimonio sono due persone, uomo e donna, perché queste sono necessarie e sufficienti a fondare una famiglia e costituiscono l’ambiente idoneo per lo sviluppo e l’educazione della prole: i bambini hanno bisogno di mamma e di papà. Sono uomo e donna, come ribadisce la Corte costituzionale nella sentenza del 2010, che hanno la “potenziale finalità procreativa”, che fondano e regolano l’esistenza e l’ordine delle generazioni future, per il bene comune di tutta la comunità. Ma se questa funzione sociale non sussiste, come nel rapporto omosessuale (e questa non è discriminazione ma realtà), intanto non si comprende perché dovremmo predisporre un regime quasi identico al matrimonio (o un qualsiasi regime di rilevanza pubblica); se invece per ipotesi dovessimo prevedere un regime simile, non si comprende perché dovremmo limitarlo a due persone. Seguendo la logica delle unioni civili, non capiamo in virtù di quale ragione valida dovremmo proibire a tre adulti omosessuali consenzienti di far riconoscere pubblicamente la loro unione. Anzi, perché non riconoscere unioni civili tra due o tre amici e due o tre sorelle che vivono stabilmente assieme e si impegnano a sostenersi a vicenda? L’amicizia profonda e l’amore fraterno hanno addirittura meno valore che la relazione omosessuale?

Un punto delicato che è stato sollevato da pochi è quello dell’obiezione di coscienza dei sindaci e altri funzionari pubblici che per ragioni morali o religiose si rifiutino di collaborare alla realizzazione di un simil-matrimonio omosessuale (registrandolo o trascrivendolo). Rispondiamo in anticipo a coloro che vorrebbero sbrigativamente evitare la questione sostenendo che sarebbe assurdo esonerare funzionari pubblici dai loro doveri solo perché hanno opinioni personali contrarie a quelle del legislatore. Il fatto è che qui non stiamo parlando di mere “opinioni personali”, ma di convincimenti talmente radicati e diffusi da costituire un fatto sociale macroscopico. La questione è esplosa in tutta la sua rilevanza in paesi come Francia e Stati Uniti dove, dopo il riconoscimento delle unioni omosessuali, numerosi sindaci e altri funzionari hanno fatto obiezione di coscienza e sono stati talvolta puniti con pesanti multe o con la reclusione. Noi, come associazione, abbiamo ricevuto molte segnalazioni di sindaci in tutta Italia che troverebbero, in coscienza, inaccettabile celebrare un’unione omosessuale se dovesse essere approvato questo disegno di legge. Si tratta di un problema di rilevanza sociale e istituzionale, non di “semplici opinioni personali”: è noto, ad esempio, che quasi tutte le religioni con cui lo Stato italiano ha rapporti ufficiali sostengono l’illiceità morale dell’unione omosessuale. Ancora di più: se guardiamo alla religione che storicamente caratterizza l’Italia, ancora “di maggioranza”, l’obiezione di coscienza sul punto in questione è esplicitamente insegnata come dottrina obbligatoria dalla Chiesa Cattolica. L’impossibilità dell’obiezione di coscienza striderebbe dunque sia con l’art. 19 che con l’art. 21 della Costituzione.

Infine vorremmo affrontare la disciplina delle convivenze. Si dà per scontato che si debba ormai prevedere un nuovo istituto giuridico per i conviventi (etero o omosessuali), nonostante l’ordinamento riconosca già numerosi diritti ai conviventi. Eppure l’errore sta nell’adottare sempre il punto di vista delle situazioni di fatto già esistenti che implicano soprattutto beni e desideri individuali degli adulti, così perdendo di vista l’essenziale: cioè che la legge vale soprattutto per il futuro, e dovrebbe essere in funzione del bene comune. Essa non può fare altro che vietare, permettere oppure promuovere alcuni comportamenti a livello sociale. Bisognerebbe porsi dalla prospettiva delle future generazioni e soprattutto dei bambini: sarà sempre più facile che questi ultimi crescano in situazioni favorite e promosse da leggi del genere. La disciplina delle convivenze è sbagliata in ragione delle seguenti due premesse che ora illustreremo: 1. La proliferazione delle convivenze dal punto di vista sociale è un fenomeno negativo. 2. Il regime che risulta dal riconoscimento pubblico delle convivenze fa diretta concorrenza al matrimonio.

L’effetto di una legge del genere per il futuro sarebbe che un numero sempre maggiore di coppie si “accontenterebbero” della convivenza riconosciuta senza procedere oltre a contrarre matrimonio. E ciò produce un danno enorme al bene sociale, e specialmente all’interesse dei bambini. Per un semplice motivo: il matrimonio garantisce il bene fondamentale della stabilità alle generazioni future. Qui invece si promuovono unioni per definizione instabili. Le stesse parti della convivenza, tendenzialmente, non vogliono regolamentazioni pubbliche, obblighi giuridici, garanzie di stabilità … altrimenti si sposerebbero.

I diritti e doveri previsti per le convivenze non dipendono dalla volontà delle parti ma dal semplice fatto anagrafico della convivenza. Si tratta, sembra, di un’ingerenza dello Stato nella vita di coppie di fatto che magari non hanno mai richiesto precisi diritti e doveri: ad esempio, si impone l’obbligo degli alimenti al comma 65, anche nelle ipotesi di convivenza breve, e addirittura si antepone quest’obbligo derivante da una relazione instabile e magari fugace, al medesimo obbligo nei confronti di fratelli e sorelle, cioè relazioni permanenti di sangue. L’istituto che bilancia diritti e doveri della coppia e li rende funzionali al bene comune esiste già e si chiama “matrimonio”, negozio che risulta dalla volontà libera delle parti.

Fare concorrenza al matrimonio significa diminuire il benessere della società nel suo complesso. Su questo la letteratura scientifica è molto chiara. Citerò uno studio particolarmente significativo, in quanto si tratta di una recente metanalisi, straordinaria per la sua ampiezza. Nel giugno del 2014, il professor Pliego Carrasco dell’ Universidad Nacional Autónoma di Messico, ha pubblicato una metanalisi delle 351 ricerche statisticamente più significative, svolte in 13 paesi democratici, sulla relazione tra le diverse tipologie familiari e gli effetti sul benessere sociale. La famiglia naturale fondata sul matrimonio appare nettamente come quella che garantisce il benessere sia di adulti che bambini. Nelle coppie di fatto, ad esempio, la probabilità che i bambini siano vittime di abusi sessuali è di 4,5 volte superiore; dati simili valgono per la violenza fisica. Ci preoccupiamo della salute delle donne? Ebbene: rispetto alla donna sposata, la donna in una convivenza ha il doppio della probabilità di essere vittima di violenza fisica; una probabilità di 3,1 volte superiore di consumare droghe; il rischio di depressione raddoppia.

Rispetto al matrimonio, le convivenze sono correlate a: maggiore violenza contro donne e bambini; peggiore salute fisica; maggiori problemi di salute mentale; redditi più bassi e disoccupazione più frequente; condizioni abitative meno favorevoli; minore cooperazione nelle relazioni di coppia; consumo di droga, alcool e tabacco statisticamente maggiore; tassi maggiori di criminalità tra i minori; peggiore rendimento scolastico dei bambini. Insomma la promozione delle convivenze, in concorrenza con il matrimonio dal punto di vista sociale, diminuisce il benessere in tutto e per tutti.

Alessandro Fiore

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