03/12/2016

“Mamma (surrogata) per amica” per Luke e Lorelai

Una mamma per amica (Gilmore Girls) è una serie televisiva statunitense che ha avuto molto successo anche qui in Italia, di cui da pochi giorni è ricominciata una nuova stagione.

«I figli danno soddisfazioni, ma sono anche fonte di paure e dubbi: sono sani, capaci, intelligenti? Le cucine di McDonald’s sono piene di laureati poco brillanti e poi, beh, c’è la lotteria della natura. Sei pronto ad avere un figlio non particolarmente fotogenico e magari bruttino? Ti andrebbe bene se tuo figlio non facesse l’attore ma l’agente? »

Una mamma per amica” è quella che normalmente definiremmo come l’alternativa serena, per i vecchi fan under 18-25 e i neonati appassionati, alla maggioranza dei programmi che invadono la sala da pranzo con proposte per lo più violente e/o a sfondo sessuale, che obbligano la famiglia, nel suo ruolo di agenzia comunicativa, a negare una privacy (ormai inesistente) ai figli, vegliando costantemente, lavoro permettendo, su ciò che guardano.

Accade però che, nell’era del pensiero unico dominante, di quell’impronta culturale che si tenta di estendere a macchia d’olio colpendo minori e adulti, un programma leggero, simpatico, sul particolare rapporto d’intesa tra mamma, figlia e caffè, diventi l’attesa disattesa: il grande ritorno del duo più seguito nella pausa pomeridiana di qualche anno fa, apre con un primo episodio decisamente impegnativo per una mente attenta.

La citazione riportata inizialmente è pronunciata dall’antipatica Paris, ora manager di una clinica specializzata di salute riproduttiva femminile e maternità surrogata: la coppia più amata e travagliata della fiction (Luke e Lorelai) si rivolge alla clinica per farsi illustrare procedure e possibili proposte. La tentata compravendita avviene consultando cataloghi cartacei (scartati con esclamazioni come “uteri di seconda classe”; “sforna pagnotte alle quali non permetterò di dare alla luce il vostro bambino”) o virtuali, che scorrono fotografie della cosiddetta “carne di prima scelta”. Una selezione accompagnata da descrizioni e riflessioni sull’importanza di prestare cura alla surrogata vincitrice perché le sue caratteristiche determineranno la qualità del prodotto finale.

La questione dell’utero in affitto, che per quanto espressione poco gradita risulta congeniale al dato di fatto che rappresenta, è forse uno dei pochi punti di incontro tra una cultura che lotta per il recupero di un senso pieno della fecondità nel rispetto della dignità di ogni concepito come valore impossibile da tenersi entro una proporzione di parificazione pecuniaria, e buona parte di quella voce femminista da anni esposta alla difesa dell’autodeterminazione della donna insieme all’abolizione del maschilismo.

Per quanto paradossale i due mondi convergono nel bollare la maternità surrogata come schiavitù e, ancora una volta, come una meschina forma di oggettificazione, sfruttamento e denigrazione della donna.

In effetti l’industria delle donne prescelte, adoperate come forni, della prole su misura, del commercio di figli resi intenzionalmente ignari e orfani delle loro origini, è una battaglia di portata universale tra l’avidità di pochi e l’indisponibilità della vita di ogni essere umano, che lo sottrae da qualsiasi logica di mercato e da qualunque possesso.

Un tema tanto urgente non può che entrare con passo troppo leggero nella coscienza di chi se ne fa spettatore per ben sei minuti sotto una chiave di lettura che, per quanto rimanga dall’esito incerto, ritrae la donna e la maternità come animali targati di un allevamento a rete mondiale per il quale esse non costituiscono che numeri, taglie, capacità, estetica e prezzo. Un cruccio per la moderna società liquida che ama la dannazione nell’individualismo esasperato, che allontana ancor più gli uomini dalla loro natura trascendente nella promessa di una libertà del fare e del possibile, che si spinge al punto di implodere su se stessa perché viola la propria identità piuttosto che rispettarla.

Questo accade quando al posto di generazione si parla di riproduzione della vita umana. Questo accade quando si “fa un figlio” (dove fare garantisce un prodotto oggettivo da possedere) e non si agisce al di là dello sviluppo di quell’incontro, che rimarrebbe invece frutto senza dominio. Questo accade quando paternità/maternità/figliolanza non costituiscono dei legami interpersonali, ma monadi scisse, manipolabili. Questo accade quando la donna è il mezzo per una merce a stima monetaria, al vaglio di garanzie e diagnosi d’efficienza per controllo qualità.

Il primo episodio introduce problematiche di estrema attualità, che attraversano i binari dell’amore e dell’utile, separati dalla giustificabile incomprensione di Luke, il quale non si spiega il salto causa-effetto di un futuro (la prole) senza radici (identità genetica). La domanda è se modalità unilaterali di approccio al tema possano contribuire a quel percorso di maturazione critica, proprio di giovani e adulti, senza che venga parallelamente proposto loro anche un personaggio di condanna (e non al servizio) di quell’ideale di perfezione al quale sembra tendere rapidamente la società di massa, mentre finge di essere in grado di ignorare fattori che richiamano il dramma di queste donne, di questi bambini e della correlata corruzione come fattore preminente rispetto a tutte le ipocrite giustificazioni che si tentano di addurre alla pratica.

Speriamo che Lorelai si ravveda grazie al buon senso che Luke sembra aver dimostrato e che Amy Sherman Palladino non si presti al servizio di una mentalità aberrante, se non altro per dare una seconda opportunità alla donna, che in questo primo episodio non sembra rappresentare un valore più alto di quello di un qualunque oggetto da shopping folle a costo elevato aggiunto al carrello spese della fertilità.

Giulia Bovassi


 

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