04/01/2017

Matrimonio? E perché? I conviventi hanno tanti diritti...

Questo articolo su matrimonio, convivenze e dintorni è stato scritto quando non erano ancora state approvate in Italia le unioni civili. Rimane comunque un articolo molto utile. 

I cosiddetti “registri delle unioni di fatto”, che con tanta enfasi, ma con poco seguito, sono adottati da alcuni comuni italiani, non solo non hanno, per sé, alcuna rilevanza giuridica, ma nella misura in cui sono funzionali a mettere sullo stesso piano, nelle politiche sociali, la famiglia e il matrimonio rispetto a tali unioni, contrastano con i principi generali dell’ordinamento giuridico.

Occorre, infatti, tenere ben presente la distinzione tra interesse pubblico e interesse privato. Il matrimonio e la famiglia rivestono un interesse pubblico, e come tali, devono essere riconosciuti e protetti. Le unioni di fatto, invece, sono la conseguenza di scelte e comportamenti privati, e su questo piano privato dovrebbero restare. Il loro riconoscimento pubblico, con la conseguente elevazione degli interessi privati al rango di interessi pubblici, sarebbe pregiudizievole per la famiglia fondata sul matrimonio, e costituirebbe un’evidente ingiustizia rispetto al principio fondamentale secondo cui ad un diritto corrisponde un dovere.

A differenza delle unioni di fatto, infatti, nel matrimonio si assumono pubblicamente e formalmente impegni e responsabilità di rilevanza per la società, esigibili sul piano giuridico.

L’istituzione di tali registri, in realtà, si riduce ad un’iniziativa meramente ideologica, priva di concreti effetti giuridici, quasi una sorta di inutile inseguimento di chi, d’altra parte, rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità pubblica. Ad esempio, di chi rifiuta gli obblighi derivanti dagli articoli 143 (diritti e doveri reciproci dei coniugi), 144 (indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia) e 147 (doveri verso i figli) del Codice Civile.

Come ha lucidamente evidenziato Sua Eminenza il Cardinal Dionigi Tettamanzi in un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano il 5 settembre 1998, l’introduzione dei cosiddetti registri comunali delle unioni civili, che «per definizione, rifuggono da ogni forma di regolamentazione sociale», significa «compromettere la certezza del diritto». «Con l’istituzione del “registro delle unioni civili”», precisa infatti il Cardinale nel citato articolo, «si riconosce uno speciale status giuridico di famiglia a persone che liberamente hanno rifiutato e rifiutano proprio lo status di famiglia, con tutti i correlativi diritti e doveri: in tal modo è lo stesso soggetto pubblico (il Comune) a cadere in una palese e intollerabile contraddizione». «Si aggiunga poi», prosegue Tettamanzi, «che il soggetto pubblico pone un atto giuridico a senso unico: mentre si assume delle obbligazioni nei confronti dei conviventi, questi non si assumono nessuna obbligazione», e «in tale prospettiva, è paradossale che sia lo stesso soggetto pubblico a farsi responsabile del rifiuto della dimensione sociale della convivenza familiare e del riconoscimento dell’individualismo più marcato: con l’equiparazione famiglia-unioni di fatto, il soggetto pubblico accetta un’ingiusta e deleteria “dissociazione” tra diritti e doveri: ai conviventi riconosce i diritti, ma da essi non esige i doveri». «Come si vede», conclude il porporato, «l’equiparazione – mediante l’iscrizione a registro – delle unioni di fatto alla famiglia è contraria a ogni coerente articolazione dei rapporti tra diritti e doveri e, proprio per questo, sovverte alla radice il vivere sociale, oltre ad essere un vero e proprio vulnus alla Costituzione vigente»; anche per questo occorre chiedersi «quale possa essere la “legittimità” di simili deliberazioni dei Comuni, dal momento che a questi non sono attribuite competenze propriamente legislative (almeno in questo campo), ma, al più, compiti solo amministrativi».

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Dubbi giuridicamente assai fondati, ai quali se ne può aggiunger uno di carattere sociologico: il riconoscimento pubblico delle convivenze private non rischia di diventare un modello sociale diseducativo? Un rapporto che i giovani possono trovare più comodo del matrimonio, in quanto privo di tutti i doveri di questo ultimo, cioè i doveri di co-abitazione, di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione secondo le capacità, il dovere di rendere conto alla legge del proprio comportamento verso gli altri membri della famiglia, il dovere di istruire e mantenere i figli, finanche il divieto di ottenere il passaporto senza il consenso del coniuge? Conviene davvero alla comunità civile un vincolo sociale così flebile, così privato ed insindacabile, che si può interrompere senza neppure l’obbligo di preavviso? È saggio investire risorse pubbliche (cioè dei contribuenti) per soddisfare scelte private? Scelte che non vogliono un impegno verso tutti? La risposta dovrebbe essere semplice: no. Esiste, però, l’obiezione di coloro i quali sostengono che il problema esiste per quelle coppie che non si possono sposare, ovvero le coppie composte da persone dello stesso sesso. Da qui la proposta di una legge che regoli le unioni civili tra coppie omosessuali.

Su questo punto occorre essere molto chiari.
Il nostro ordinamento non contempla nessun riconoscimento giuridico pubblico alle unioni tra persone dello stesso sesso, in quando tale forma di convivenza non appare idonea a creare quella «famiglia naturale» cui si riferisce espressamente l’art. 29 della Costituzione. Ne rappresenta un impedimento insormontabile la sua oggettiva sterilità e la sua inconfutabile impossibilità procreativa.
Del resto, la società in ogni tempo e in ogni cultura tutela il matrimonio tra un uomo ed una donna, perché esso, ed esso soltanto, fondando la famiglia è in grado di garantire l’«ordo succedentium generationum».
Un documento redatto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 3 giugno 2003 – a firma dell’allora Prefetto Card. Joseph Ratzinger – intitolato Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, contiene un’interessante osservazione sul punto. Affrontando il tema delle argomentazioni di carattere giuridico, in quel documento si sottolinea: «Non è vera l’argomentazione secondo la quale il riconoscimento legale delle unioni omosessuali sarebbe necessario per evitare che i conviventi omosessuali perdano, per il semplice fatto della loro convivenza, l’effettivo riconoscimento dei diritti comuni che essi hanno in quanto persone e in quanto cittadini. In realtà, essi possono sempre ricorrere – come tutti i cittadini e a partire dalla loro autonomia privata – al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse. Costituisce invece una grave ingiustizia sacrificare il bene comune e il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere dei beni che possono e debbono essere garantiti per vie non nocive per la generalità del corpo sociale».

Proprio qui sta il punto nevralgico della questione: i rapporti tra i conviventi omosessuali possono e devono trovare la propria regolazione nell’ambito delle possibilità concesse dal diritto privato. I giuristi sanno bene, peraltro, che praticamente tutti quei diritti generalmente invocati dai partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre per via legislativa nuovi istituti. È un falso problema, ad esempio, la questione successoria, in quanto attraverso il testamento è possibile trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima. Oggi nulla vieta, peraltro, al convivente omosessuale di ricorrere agli strumenti del diritto volontario stipulando una polizza assicurativa o una pensione integrativa a beneficio del partner, o stipulando un contratto di comodato d’uso vita natural durante, ovvero costituendo un usufrutto d’immobile.

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È un falso problema il subentro nel contratto di locazione della casa di comune residenza, in quanto tale contratto può ben essere stipulato congiuntamente dai due partner, e in ogni caso già la giurisprudenza costituzionale è intervenuta riconoscendo il diritto di successione nel contratto di locazione a seguito della morte del titolare a favore del convivente (Corte Costituzionale sent. n. 404/1988). Così come è un falso problema la possibilità di visita in carcere del partner, oggi concessa anche ai conviventi grazie ad espresse disposizioni dell’ordinamento penitenziario (art. 18 della legge 26 luglio 1975, n.354, e art. 37 del regolamento di esecuzione D.P.R 30 giugno 2000, n. 230). Per quanto riguarda le visite in ospedale oggi già quasi tutti i regolamenti interni dei nosocomi contemplano la possibilità di accesso ai conviventi. È un falso problema, inoltre, la risarcibilità del convivente omosessuale per fatto illecito del terzo (ad esempio in un incidente stradale), poiché la giurisprudenza ha ormai pacificamente riconosciuto tale diritto (Tribunale di Milano 12 settembre 2011, n. 9965), secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione (Cass., sez. unite Civ., sentenza 26972/08, Cass. III sez. pen. n. 23725/08). Numerose sono, del resto, le disposizioni normative che attribuiscono diritti specifici alle «persone stabilmente conviventi».
Basti citare, ad esempio, la possibilità di richiedere la nomina di un amministratore di sostegno (art. 408 e 417 c.c.), la facoltà di astensione dalla testimonianza in sede penale (art. 199, terzo comma, c.p.p.), la possibilità di proporre domanda di grazia (art. 680 c.p.), e così proseguendo.
La giurisprudenza riconosce, infine, la possibilità a conviventi omosessuali di stipulare, nell’ambito dell’autonomia negoziale disponibile, accordi o contratti di convivenza, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 del Codice civile) e non contrastino con norme pubbliche, l’ordine pubblico o con il buon costume. Si tratta in genere di accordi di natura patrimoniale che rientrano nella disponibilità delle parti (ad esempio la scelta e le spese per l’abitazione comune; la disciplina dei doni e delle altre liberalità; l’inventario, il godimento, la disponibilità e l’amministrazione dei beni comuni; i diritti acquistati in regime di convivenza, ecc.).

A nulla vale, del resto, l’obiezione secondo cui limitare l’ambito di regolazione dei rapporti giuridici al solo diritto privato implicherebbe un onere di attivazione da parte dei conviventi omosessuali, che verrebbero così discriminati rispetto alle persone unite in matrimonio. A prescindere da quanto già evidenziato sul riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, ciò che fa specie è constatare come proprio i cultori dell’autodeterminazione e dell’autonomia della persona – fondamento del pensiero cosiddetto “laico” – siano i più accaniti sostenitori di tale obiezione. Per questo appare davvero paradossale che i propugnatori di una visione liberal del comportamento umano arrivino a chiedere insistentemente l’intervento dello Stato nella gestione dei rapporti privati, anziché invocare tutti quegli strumenti che consentono l’espressione della piena autonomia e della responsabilità dei singoli.
Concludo citando un libro. Lo scorso marzo la Casa Editrice Nuovi Equilibri ha pubblicato un interessante testo intitolato Certi diritti che le coppie conviventi non sanno di avere. Gli autori (insospettabili) sono Bruno de Filippis (giurista ed esperto di diritto di famiglia), Gian Mario Felicetti (autore di La famiglia fantasma, e membro del Direttivo dell’Associazione radicale “Certi Diritti”), Gabriella Friso (responsabile dell’Ufficio Diritti dell’associazione “Les Cultures” di Lecco, membro del gruppo IO Immigrazione e Omosessualità di Milano e del Direttivo dell’Associazione radicale “Certi Diritti”), e Filomena Gallo (avvocato e segretaria dell’associazione radicale “Luca Coscioni” per la libertà di ricerca scientifica). Pur essendo tutti sostenitori del riconoscimento pubblico e normativo dei diritti delle coppie omosessuali, hanno scritto il citato saggio concependolo come «un manuale di sopravvivenza», attraverso il quale indicare ai conviventi «il modo di tutelarsi per restare insieme nel caso la vita conduca uno dei due in ospedale o in carcere, per conservare la casa, ottenere risarcimenti o congedi, stipulare convenzioni e assicurazioni, garantire che i figli non subiscano danni e discriminazioni». Indicazioni davvero utili per l’esercizio di diritti già esistenti. Non amo recensire simili autori, ma in questo caso ho ritenuto opportuno fare un’eccezione. Quantomeno per dimostrare come sia, in realtà, pretestuosa, strumentale e inesistente la polemica sulla necessità di un riconoscimento pubblico di diritti per le coppie omosessuali.

Gianfranco Amato

Fonte: Notizie ProVitaottobre 2014, pp. 13-14-15.

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