04/01/2017

Vita è... ricercare per curare!

Cosa dà la vita, in senso fisico e spirituale? E può esserci una scienza che si pone a servizio della vita, senza sopraffarla?

Sir Albert William Liley (1929-1983), neozelandese, appassionatissimo clinico e ricercatore, si può a buon diritto considerare il padre della moderna embriologia e fetologia, sempre al servizio della vita.

Nel 1953 sposa Helen Margareth Irwin Hunt, sua compagna di classe prima e di vita poi, che diverrà ostetrica e pediatra. Avranno cinque figli e adotteranno una bimba Down, Stefania. Assieme alla moglie, è instancabile sostenitore della vita, e in particolare dei diritti del nascituro. Sarà anche uno dei fondatori, nel 1970, della “Società per la protezione del bambino non nato”.

Il Professor Liley sostiene che il nascituro è dotato di una propria personalità. Si nutre, desidera una cosa piuttosto che un’altra, è sensibile al rumore, al dolore, al flash della macchina fotografica, ha il singhiozzo, dorme, si sveglia...
Secondo il ricercatore, nessun problema per la salute fetale o malattia può essere considerato isolatamente. Almeno due persone sono coinvolte in questo processo di vita: la madre e il figlio.

Egli crede anche che il modo più conveniente in cui il medico può diagnosticare la condizione del feto sia l’analisi del liquido amniotico che lo circonda. Osservandone il colore, la torbidità, gli enzimi e le sostanze in esso contenuti, si è in grado di diagnosticare un lungo elenco di malattie.
Amico di Jérôme Lejeune, lo scopritore della trisomia 21 (causa della sindrome di Down), il medico neozelandese ne condivide pienamente il desiderio: ricercare per curare. Vuole, infatti, individuare le malattie del feto per curarle il più precocemente possibile. La sua è dunque una prospettiva a servizio della vita, e non dell’aborto.

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Negli anni Cinquanta e Sessanta conduce studi sul liquido amniotico, volendo approfondire un caso di incompatibilità Rh madre-figlio.
Nel 1961 mette a punto la tecnica dell’amniocentesi e nel 1963 effettua per la prima volta al mondo una trasfusione intrauterina di sangue.

Grazie alle sue scoperte, bambini che non sarebbero potuti sopravvivere a parti prematuri e con probabilità di morire in utero a causa del loro Rh incompatibile con quello della madre, vengono trasfusi in utero con successo e portati al termine della gravidanza.
Secondo il Dott. Liley, il feto sente dolore fin dai primi mesi. Nell’offrire istruzioni per effettuare la tecnica chirurgica delle trasfusioni di sangue fetale, consiglia ai suoi colleghi di prendere in seria considerazione il problema del dolore fetale: durante la procedura chirurgica il bambino deve essere sedato e gli si devono somministrare farmaci antidolorifici.

Per il Professore l’embrione e il feto sono persone e pazienti da curare come tutti gli altri.
Nel suo reparto, al “National Women’s Hospital” di Auckland, si lotta sino all’ultimo istante per salvare la vita dei nascituri.

Nella concezione di Liley l’amniocentesi serve appunto a salvare i bimbi, non a eliminarli.
Alcuni anni più tardi però, i due amici scienziati, Liley e Lejeune, assistono purtroppo, sconvolti, allo snaturamento delle loro scoperte, che vengono utilizzate per uccidere i bimbi prima della nascita, anziché per curarli. Anche oggi, purtroppo, in molti casi la diagnosi prenatale delle malattie fetali non viene usata per curare, ma porta all’aborto. Anziché cercare soluzioni terapeutiche per i bimbi malati o con disabilità, spesso si preferisce eliminarli prima che nascano...
Liley era anche convinto della necessità di migliorare la diagnostica e le tecniche d’intervento in utero, poiché in alcuni casi bisogna agire molto precocemente.

Il suo sogno si è iniziato ad avverare: l’avanzamento delle terapie fetali sta continuando a dare risultati davvero insperati fino a pochi anni fa. La vita vince, sempre.

Anna Fusina

Fonte: Notizie ProVita, settembre 2014, p. 20.

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