02/09/2013

Anche “io ho un sogno”, come Martin Luther King

Gli Stati Uniti hanno da poco celebrato il cinquantenario della celebre marcia per la libertà in cui Martin Luther King tenne un discorso che rimase nella storia e che è ricordato con la frase simbolo “I have a dream” (Io ho un sogno), in cui il Reverendo sperava in  una società libera dalle discriminazioni razziali  che sussistevano nonostante la legale abolizione della schiavitù, avvenuta un secolo prima.
Oggi, con un Presidente della Repubblica afro-americano, il problema della razza sembrerebbe risolto.
Ma sappiamo bene che in America e nel mondo l’odio per  “gli altri” continua a serpeggiare nei più svariati contesti etnici, religiosi, sociali. Per esempio, in USA, l’Acton Institute ha pubblicato un bel commento di Elise Hilton sul rapporto del Progetto Polaris che denuncia infinite situazioni di schiavitù e di sfruttamento che si verificano ancor oggi in un paese che dovrebbe essere libero e democratico come gli Stati Uniti, a danno di centinaia di migliaia di persone impiegate nei più svariati settori commerciali. Dall’altra parte del mondo, in Cina, sappiamo che la schiavitù è pressoché istituzionalizzata, con un sistema di previdenza sociale e di tutela dei lavoratori assolutamente ridicolo e con lo sfruttamento del lavoro forzato in famigerati campi di concentramento, i laogai. In tanti altri paesi, più o meno “civili”, come il nostro, di tanto in tanto emergono situazioni  vergognose di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che giustamente fanno gridare allo scandalo e sollevano gli animi per una più profonda sensibilità sociale. Nell’ambito, poi, delle occasioni di mercificazione e avvilimento dell’essere umano, c’è la questione dello sfruttamento sessuale delle donne e dei minori in contesti a volte di “club esclusivi” che tentano di mascherare l’odioso crimine sotto una presunta  “libera scelta” o “ consenso” delle persone  coinvolte.
Ma c’è un ma.  Ci duole dover constatare che in tutto questo gran parlare di condanna della schiavitù, non sia emersa una voce anche in nome di quelle donne che vendono per nove mesi il loro corpo e il loro più profondo e intimo istinto naturale all’ignobile mercato dell’utero in affitto.  Le donne povere dei paesi poveri lo fanno anche per pochi spiccioli. Le giovani, belle e sane dei paesi ricchi – dove la legge abominevolmente lo consente – guadagnano un bel po’ di denaro.
E quindi è un business come altri? E quindi non è “schiavitù”? Non è mercificazione del corpo e dei sentimenti? Possiamo veramente ritenere che sia un atto di libertà? E’ libertà, la libertà di buttarsi via, di farsi del male, di violentare la natura? (Avete mai provato a togliere i cuccioli appena nati a una gatta o a una cagna?)
“I have a dream”: io sogno che tutte le persone ragionevoli, con un briciolo di umanità, si rendano conto che bisogna bloccare sul nascere questa pratica abominevole che calpesta la dignità delle donne e mercifica il frutto del loro seno come fosse una bestia d’allevamento (anzi peggio: il vitello è lasciato vicino alla mucca per qualche tempo). Voi che leggete, aiutatemi a realizzare questo sogno.

di Francesca Romana Poleggi

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