23/04/2014

Il figlio è mio perché lo voglio io!

Dire “Lo voglio!” non significa “E’ mio”: concetto chiaro, ragionamento basilare che si insegna a tutti già in tenera età.

Se questo vale per il giocattolo che ci contendiamo da bambini, evidentemente e legalmente conta meno se si sta parlando di un figlio. La nostra Nazione è stata travolta nel giro di nemmeno un mese da una serie -strane coincidenze- di vicende dirompenti sul piano della genitorialità: l’abolizione del divieto di fecondazione eterologa, lo scambio di embrioni e l’assoluzione della coppia italiana che si è procurata un figlio in Ucraina tramite la pratica dell’utero in affitto.

Su quest’ascesa della discussione si incentra l’ultima riflessione di Assuntina Morresi, che riportiamo a seguire.

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La probabilità che due donne con cognomi molto simili potessero trasferire lo stesso numero di embrioni la stessa mattina, una subito dopo l’altra, proprio in un centro di procreazione assistita inadeguato nelle procedure per la sicurezza e la tracciabilità, era onestamente molto bassa, però sufficiente a provocare lo scambio di embrioni di cui in questi giorni tutto il Paese sta parlando. Ma che un evento tanto anomalo sia accaduto proprio all’indomani della sentenza della Consulta che introduce la fecondazione eterologa, ha quasi dell’incredibile. L’incidente del Pertini, infatti, piaccia o no, è stato un vero e proprio fulmine nel “ciel sereno” dell’eterologa, appena resa legale in Italia, e ne ha fatto esplodere con drammatica evidenza tutte le contraddizioni. Facendo cadere gli slogan di comodo.

È proprio l’involontarietà del percorso eterologo del Pertini – le coppie evidentemente volevano figli usando i propri gameti – a mostrarne tutta la fragilità. Una fecondazione con gameti estranei alla coppia si basa su un presupposto: si è genitori non perché si genera un figlio, ma perché lo si desidera. Il patto fra chi vuole un figlio e chi fornisce i gameti, quindi, si basa sull’ipotesi, condivisa, che il legame genetico è meno importante delle intenzioni personali e della gravidanza. In altre parole, le parti in causa convengono sul fatto che il Dna non conta per stabilire chi è genitore.

L’incidente del Pertini scopre proprio questa contraddizione; nel momento in cui questo scambio di gameti non è voluto, ecco l’interrogativo: chi è la mamma “vera”, quella genetica o quella che ha i figli in grembo? Se non c’è un accordo condiviso e scritto (cioè un contratto), qual è il criterio per stabilire chi sono i genitori? Se fosse chiaro, non ci porremmo queste domande, tanto è evidente, adesso, da un lato l’importanza della gravidanza di chi ha i gemelli in grembo, e dall’altro la profonda ingiustizia subita dalla coppia privata dei suoi embrioni (che nella vicenda del Pertini “appartengono” evidentemente a chi li ha generati). Chi vuole l’eterologa lo giustifica spiegando che il figlio è di chi lo desidera e di chi ha intenzione di crescerlo, un criterio che in queste circostanze mostra tutti i suoi limiti: entrambe le donne hanno questa intenzione, ma dire “lo voglio” non equivale a dire “è mio”.

È evidente che una soluzione giusta per tutti in questo caso non c’è, e bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere almeno che stabilire quale sia la madre vera fra quella genetica e quella cosiddetta gestazionale è impossibile; dovremmo piuttosto chiederci con quale delle due mamme dovrebbero crescere i figli che nasceranno. Insomma: dire che il legame genetico non conta, come avviene nell’eterologa, è una convenzione, un’ipotesi, ma non un’evidenza.

Alcuni giuristi spiegano che la legge in Italia riconosce come madre quella che partorisce; ma questo vale perché naturalmente non è possibile partorire un figlio non legato geneticamente a sé. La gravidanza e il parto finora sono stati la prova evidente, ex-post, della maternità, mentre con l’eterologa stanno diventando il presupposto necessario per essere definita madre: non sei madre perché la gravidanza e il parto lo dimostrano, ma sei madre a condizione di avere in pancia un figlio e partorirlo. E anche quest’ultimo criterio cade con l’utero in affitto, pratica vietata in Italia, ma che alcuni nostri giudici stanno sostanzialmente accettando, rinunciando a sanzionarla secondo quanto prevede la legge 40, come è successo anche nella sentenza di questa settimana al Tribunale di Milano. In genere, ora, in queste situazioni, mentre la figura materna si sdoppia, è quella paterna a rimanere unica: ci sono così tre genitori naturali, due madri e un solo padre, quello che ha dato il proprio seme, riconoscibile con certezza grazie ai test del Dna.

Sarà un percorso giudiziario a tentare una soluzione per i fatti del Pertini, ma il primo contributo potrebbe, anzi, dovrebbe venire dai giudici della Consulta, nelle motivazioni con cui hanno abolito il divieto di fecondazione eterologa, che fra poco saranno pubbliche. Sarebbe giusto che anche dalle loro parole emergesse un’indicazione a riguardo, visto che la legge e la giurisprudenza esistente non danno risposte a una novità assoluta. Avremmo il primo pronunciamento autorevole in cui ci si riferisce a un nuovo modello di genitorialità, entrato nel nostro Paese non dalle aule parlamentari, non per un referendum popolare, ma, ancora una volta, per sentenza, per la decisione di un pugno di giudici che fra qualche giorno ci dirà per quale motivo, in futuro, anche in Italia diversi bambini potrebbero non sapere più realmente di chi sono figli.

Assuntina Morresi

 

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