29/02/2016

Intellettuali, opinione pubblica e “L’Imbecille Collettivo”

Nel 1996 appariva un brillante scritto di Olavo De Carvalho (nella foto) dal titolo “L’Imbecille collettivo”, in cui l’autore brasiliano cercava di analizzare lo sbandamento degli intellettuali progressisti che si erano dovuti confrontare con il fallimento del modello comunista.

Visto tale fallimento nella patria del socialismo, gli intellettuali di sinistra si sono trovati nella difficile situazione di cercare rifugio in un’ideologia in grado di spiegare l’apparente assurdo corso della storia senza essere costretti a rompere con le basi atee e materialiste del Marxismo.

La logica utilizzata è stata quella gramsciana secondo la quale non essendo possibile una conoscenza oggettiva, l’attività intellettuale si riduce a pura propaganda e alla manipolazione della coscienza.

Secondo Gramsci l’unico scopo degli sforzi culturali e scientifici è quello di esprimere desideri collettivi. Dato che per gli intellettuali progressisti non esistono concetti universali e nemmeno dei giudizi validi per tutti, l’unica cosa possibile è “creare” dei convincimenti attraverso l’uso della propaganda in modo da creare delle illusioni collettive. Chi aveva il compito di creare l’intellettuale collettivo? Per Gramsci era il partito, mentre per Richard Rorty, l’intellettuale a stelle e strisce, era la comunità accademica.

Queste due entità, che avrebbero il compito di orientare le coscienze degli uomini, sono in realtà delle entità fantasma prive di coscienza, che mostrano il più totale disprezzo per i dati di realtà, che non ammettono alcun tipo di ragionamento e agiscono sulla massa plasmata dalla psicologia dei sentimenti in totale disprezzo della “verità”.

L’intellettuale collettivo di Gramsci non ha l’unità di un organismo, ma unicamente l’unità funzionale di un club o di un esercito, ragion per cui non può essere intelligente. Che significa ragionare? Catturare in un attimo l’unità oggettiva di una serie di dati, sistematizzarli e renderli disponibili alle facoltà psichiche: alla volontà, ai sentimenti, all’immaginazione. E’ tutto ciò che consente all’individuo di reagire all’unisono, a seconda delle situazioni, senza bisogno di mediazioni e di un lungo processo decisionale. Come fa un’entità collettiva a raggiungere il livello di coscienza individuale? Per comprendere le situazioni e decidere rapidamente come un individuo, l’entità collettiva ha bisogno di un uomo solo al comando. Per preservare la democrazia interna, l’uomo al comando deve sottomettere le sue decisioni all’approvazione dei membri del partito e attendere l’esito della discussione. Nel frattempo migliaia di fattori diversificati interferiscono nel processo per cui la decisione finale sarà un aggiustamento meccanico tra pressioni e concessioni e non la risposta immediata alla percezione della realtà. L’intellettuale collettivo deve scegliere tra l’unità della tirannide e la moltiplicazione dei linguaggi. Per cui, alla fine, la situazione sarà manipolata da qualche individuo più sveglio degli altri. In breve si tratta di scegliere tra una tirannide dissimulata o una dichiarata.

Quando l’intellettuale collettivo era presente solo dentro il partito comunista, il culto dell’ignoranza riguardava solo i movimenti di estrema sinistra incapaci di vedere anche i fatti più eclatanti come i processi farsa di Mosca, i fallimenti economici, i gulag.

Con la caduta della gerarchia comunista lo spirito dell’intellettuale collettivo è fuoriuscito dal corpo moribondo del comunismo per entrare negli “intellettuali” tout court. Attualmente la vita intellettuale imita le discussioni interne del vecchio Partito comunista. In questo modo l’intelligenza individuale perde la capacità di operare da sola dato che non è più capace di capire le cose. Poiché tutti sono immersi in questo sentimento collettivo, nessuno è più in grado di guardare le cose dall’esterno, così come il pesce non è in grado di vedere l’acqua che lo circonda.

La vita intellettuale pertanto si riduce ad una  mutua conferma di credo, pregiudizi, sentimenti dei membri del gruppo degli intellettuali.

Secondo De Carvalho basterebbe una generazione di intellettuali collettivi che dominano il mondo per perdere l’individualizzazione della coscienza, una acquisizione che è stata portata a compimento attraverso migliaia di anni di sforzo evolutivo.

L’idea dell’intellettuale collettivo era nata nei club e nei saloni letterari in cui era nata la Rivoluzione Francese. Quella fu la prima volta che gli intellettuali moderni percepirono la forza della loro unione consacrata come “opinione pubblica”. La caratteristica di quei club, che li rendeva diversi dalle società scientifiche, era la totale assenza di criteri razionali di convalida degli argomenti trattati. In quei club tutto veniva deciso in base alle preferenze della maggioranza sia in tema di economia, metafisica e perfino nel campo delle scienze naturali. La vera dottrina non era quella che coincideva con la realtà, ma quella che meglio esprimeva le aspirazioni collettive con un linguaggio che adulava le passioni del momento.

Spazzati via i venti rivoluzionari, le istituzioni scientifiche ed accademiche della borghesia vincente si riorganizzarono non secondo l’esempio delle società rivoluzionarie, ma secondo i canoni dell’università Medievale e dei circoli scientifici del Rinascimento.

La “repubblica delle lettere” serviva solo ad agitare le masse, ma non poteva generare conoscenza. A quel punto il modello di società nel dibattito rivoluzionario si polarizzò ancora una volta verso gli intellettuali socialisti.

Se nel corso del XX secolo un’atmosfera di club giacobino ha preso lentamente piede nella totalità della vita culturale ciò è dovuto, in gran parte, alla proletarizzazione delle università, che da centri di crescita delle dell’élite scientifica e di governo, si è convertita in centri di educazione professionale delle masse mentre il compito di formare le élite veniva trasferito in istituzioni più discrete se non addirittura segrete.

L’espansione quantitativa del processo educativo, unito a una riduzione dei requisiti necessari per accedervi, si è trasformata in un profondo degrado culturale.

La stessa natura delle professioni universitarie si è pervertita: i professori non devono nemmeno formarsi un’opinione ragionevole, perché sono solo degli impiegati che seguono la moda collettiva, come erano una volta gli impiegati della classe media e i manovali.

Con l’avvento dell’economia dei servizi il “proletariato intellettuale” si è espanso al punto di superare la maggior parte della popolazione dei paesi ricchi e quasi l’intera classe media dei paesi poveri.

Il risultato che ne è emerso è stato quello di una produzione culturale fatta di sensazionalismi in cui il gossip dei giornali assurge al rango di prestigio intellettuale. Mossa dalla necessità di lusingare le passioni più volgari, la cultura si modella sui criteri di mercato, con i quali “l’imbecille collettivo” conferma, in modo circolare, che non esiste verità al di sopra della preferenza della maggioranza.

In questa atmosfera la discussione razionale diviene impossibile. Il consenso si forma in base ai sentimenti che si agitano confusamente nell’aria. E’ il tempo della retorica, della psicologia della persuasione e di vaghe minacce che si vanno a sostituire alle argomentazioni razionali. Alla fine lo status che si è venuto a creare afferma di aver raggiunto la dignità di legge.

La Rosa Bianca

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