01/08/2015

La teoria gender esiste, anche a scuola: la prova definitiva – parte III

Arriviamo all’ultima parte del nostro discorso sulle prove dell’esistenza della teoria gender : essa è, come abbiamo mostrato, a tutti gli effetti una teoria (o delle teorie), che è stata elaborata da alcuni studiosi, e viene promossa da alcune Istituzioni. Infine, essa viene introdotta anche nelle nostre scuole.

E’ quanto cercheremo di mostrare ora.

Per comprendere meglio tutta la portata di quello che diremo è necessario però tenere in mente quanto già detto nelle due prime parti di questo studio:

Parte III. La teoria gender viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?

Molte direttive, iniziative e progetti rivolti alle scuole hanno per oggetto l’educazione alla parità di genere, la lotta al bullismo omofobico, il contrasto alle discriminazioni, l’educazione al rispetto delle diversità. Queste finalità potrebbero apparire condivisibili. Tuttavia, molti denunciano il fatto che i mezzi indicati per raggiungere finalità come la lotta al bullismo e il rispetto delle diversità si ispirino alla teoria gender, così come sarebbe ispirato al gender il quadro teorico sottostante. Infine le finalità stesse sarebbero almeno parzialmente viziate da un riferimento di natura ideologica.

Vediamo dunque se le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender si possono riconoscere in alcuni progetti destinati alle scuole, di ogni ordine e grado: progetti che qualche volta sono stati già applicati, altre volte sono stati solo proposti.

Si tenga a mente che, nelle scuole, l’infiltrazione della teoria gender sembra avvenire a volte in modo più subdolo e meno chiaro. Può capitare di trovare in certi progetti espressioni tipiche della teoria gender, eppure non trovare chiaramente espressi i principi della teoria: ad esempio, non tutti i progetti che criticano “gli stereotipi” riguardanti il maschile e il femminile sono chiaramente riconducibili alla prospettiva di genere (benché in generale la tendenza sia proprio quella).

In Italia, una certa importanza in questo contesto deve essere attribuita a un documento dell’UNAR (di cui abbiamo parlato) che è la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere“. La Strategia, da implementare dal 2013 al 2015, poggia su quattro assi: educazione e istruzione; lavoro; sicurezza e carceri; comunicazione e media. Ci interessa soprattutto il primo. Per redigere il documento l’UNAR si è avvalso di un “Gruppo nazionale di lavoro LGBT”, con funzioni consultive, che comprende tutte associazioni, ovviamente, rigorosamente LGBT. Ad esempio il Circolo omosessuale “Mario Mieli” e associazioni transgender come il Movimento Identità Transessuale e il Consultorio Transgenere. La “Strategia nazionale” comprende un glossario (pp. 46 e ss.) con le definizioni tipicamente alla base della teoria gender: genere; identità di genere (“la percezione di sé come maschio o come femmina o in una condizione non definita”); ruolo di genere; queer; transgender; ecc..

Il documento sembra riconoscere il disturbo da identità di genere e quindi, da questo punto di vista, non sembra far propria la versione più “radicale” della teoria gender, ma parla a più riprese del sostegno ai processi di “transizione di genere” (pp. 16 e 36). Analizzando la parte dedicata alle scuole, troviamo affermazioni proprie della prospettiva gender: a fondamento del bullismo omofobico e transfobico ci sarebbe una “cultura che prevede soltanto una visione eteronormativa e modelli di sessualità e norme di genere (p. 20); tra gli obiettivi ci sono quelli di favorire l’empowerment delle persone LGBT [quindi anche transessuali e transgender, come si specifica a p. 47] nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni”, e di “contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori (ecc.)” (p. 22); tra le misure concrete proposte: “integrazione delle materie antidiscriminatorie nei curricula scolastici (...) con un particolare focus sui temi LGBT, “accreditamento delle associazioni LGBT, presso il MIUR, in qualità di enti di formazione (p. 23).

Abbiamo già parlato nella parte precedente della “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“, ispirata alla più radicale teoria gender, e come essa fosse reperibile alla sezione “risorse utili” del sito dedicato alla scuola, nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”. Un estratto della “Dichiarazione” si trova anche nella guida per docenti “Diritti LGBTI, diritti umani” (a p. 60), di questo progetto rivolto alle scuole secondarie. Nella “guida” troviamo che le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender sono ricorrenti: oltre al solito glossario gender (p. 47), che riporta una definizione eloquente di “transgender” (“Termine “ombrello” per indicare in senso generale una persona in cui identità biologica, socio-culturale e psicologica non coincidono. In senso ristretto, indica una persona che rifiuta lo “stereotipo di genere”, la suddivisione binaria in maschile e femminile, non identificandosi con nessuno dei due”), a p. 4 vengono ricordate alcune richieste di Amnesty International al Governo italiano, tra le quali: “Eliminare ogni forma di discriminazione nella legislazione sul matrimonio civile, prevedendo il matrimonio per le coppie omosessuali (...) Garantire che gli atti dello stato civile e tutti i principali documenti siano modificabili per rappresentare adeguatamente l’identità di genere; a p. 34 vengono previste attività da svolgere con gli allievi che consistono nell’immedesimarsi con persone transgender; ci si propone di lottare contro gli “stereotipi” legati al genere e all’orientamento sessuale.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, è necessario aprire una parentesi: come abbiamo detto nella prima parte di questo studio: “riconosciamo senza problemi che esistono stereotipi negativi che riguardano il maschile e il femminile (ad esempio il modello di uomo e donna della TV e della pubblicità: donna magra, sexy, che vale solo per le sue apparenze fisiche; uomo muscoloso, infedele, ecc.). Il problema è che la teoria di genere, volendo (o pretendendo) di combattere i cattivi stereotipi, finisce per cadere nell’estremo opposto: tutti i ruoli e comportamenti “maschili” e “femminili” sarebbero stereotipi culturali, imposti dalla società o dalla famiglia, da “decostruire”. Anche pensare che mamma e papà abbiano ruoli specificamente differenti, e quindi insostituibili, sarebbe uno stereotipo di genere.

Da questo punto di vista, riconoscere la normalità delle “famiglie” cosiddette “omogenitoriali”, parificandole alla famiglia naturale uomo-donna, costituisce già di per sé un’adesione a uno dei principi fondamentali della teoria gender: cioè che il sesso biologico non ha nessuna importanza quanto ai comportamenti, i ruoli, l’aspetto psicologico e sociale della persona.

Infatti se la differenza tra i sessi, quanto ai comportamenti e ai ruoli, non ha importanza nella famiglia, a maggior ragione non avrà importanza in nessun altro contesto sociale. Se la differenza sessuale è vista come indifferente rispetto alla dimensione familiare (che è la prima dimensione sociale!) e rispetto al profilo psicologico delle persone nella famiglia (ad esempio lo sviluppo psicologico dei bambini), la differenza sessuale sarà considerata ininfluente in ogni contesto sociale. Infatti la famiglia è la società che in modo più immediato è collegata alla sessualità.

Siamo i primi a dire che la cultura giochi una parte, anche importante, nella formazione dei ruoli sociali e dei comportamenti tendenzialmente attribuiti a uomini o a donne. Nessuno sostiene che i ruoli sociali siano esclusivamente determinati dal sesso biologico: questa è una posizione caricaturale che i teorici del gender attribuiscono qualche volta ai loro oppositori (utilizzando l’argomento dell’uomo di paglia che invece addebitano volentieri alla controparte). Tuttavia la teoria gender dimentica che, molto spesso, l’elemento naturale c’è: molti comportamenti tipicamente maschili e femminili sono tali perché trovano (non una determinazione ma) un fondamento nella natura bio-psicologica dei sessi (il dimorfismo sessuale esiste anche a livello dell’encefalo, con conseguenze sul profilo psicologico e quindi sui comportamenti). (Altre volte invece l’elemento culturale è diretto semplicemente ad esprimere simbolicamente la differenza sessuale, e ciò non è sempre una “imposizione malvagia”).

Se, ad esempio, le femmine scelgono tendenzialmente giochi o lavori diversi dai maschi, questo fatto non è attribuibile semplicemente a uno stereotipo culturale da decostruire (come vorrebbe il gender): ci sono infatti lavori (come quelli che coinvolgono maggiormente la relazione interpersonale. es. infermiera) che realizzano attitudini naturali più tipiche delle femmine; così come ci sono lavori incentrati maggiormente sui meccanismi (es. ingegneria) che realizzano attitudini più tipiche dei maschi. Questo non vuol dire che una femmina non possa fare l’ingegnere o che un maschio non possa fare l’infermiere: vuol dire però che se ci sono proporzionalmente più maschi interessati ai meccanismi e più femmine interessate alla cura delle persone, questo fatto non rappresenta necessariamente una “imposizione culturale” come il gender vuole farci credere, ma lo sviluppo spontaneo di tendenze naturali (come dimostrano, tra gli altri, gli studi del dott. Lippa).

Queste tendenze naturali hanno una importanza ancora maggiore nella società familiare (ed è in questo contesto che la teoria gender commette gli errori più gravi) perché è in questa che la differenza sessuale ha maggior peso: essa è sia essenziale per la genesi della famiglia (generazione tra sessi diversi) che importante per lo sviluppo dei membri della famiglia: il ruolo materno è diverso dal ruolo paterno sia dal punto di vista biologico (specialmente nelle fasi iniziali del rapporto madre-bambino: gestazione, allattamento, ecc.) che dal punto di vista psicologico. Evidentemente, non ogni comportamento tipicamente attribuito a mamma o a papà è “naturale” (lavare i piatti, ecc.) ma ciò non vuol dire che nessun comportamento tipico abbia fondamento nella natura dei sessi.

Se quindi vengono considerati come stereotipi non solo quelli genericamente proposti dalla TV e dalla pubblicità (i veri cattivi stereotipi) ma anche la composizione uomo-donna nella famiglia, e ogni differenza tra il ruolo materno e paterno, allora ci troveremo di fronte a una chiara espressione della teoria gender. Così anche se ogni comportamento tendenzialmente maschile o femminile viene considerato uno stereotipo di genere, da decostruire: cioè se ogni comportamento considerato tipicamente maschile o femminile viene ricondotto esclusivamente a un condizionamento culturale.

Un esempio abbastanza chiaro di questa tendenza a oltrepassare i veri cattivi stereotipi per cadere nelle esagerazioni della teoria gender lo troviamo, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, nel progetto “Dillo con parole sue”, per “contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico e transfobico”, applicato nelle scuole primarie e secondarie di Lentate, Cesano, Seveso e Meda (MB) nell’ottobre-novembre del 2014. A p.3 il progetto sembra riferirsi a veri stereotipi: “L’immaginario della donna fisicamente perfetta, ma un po’ “stupidina”, del maschio bello, autorevole e conquistatore uniti con un modello di società incentrata sempre di più su un sistema di bisogni indotti e pratiche soluzioni sempre acquistabili e disponibili”.

Tuttavia poi a p. 6 l’impostazione gender riguardo agli stereotipi emerge: “L’idea che si debba aderire ad un ruolo di genere precostituito per essere considerati “normali” è un ostacolo alla piena realizzazione di chi per qualsiasi ragione non vi si riconosce. Tra le aspettative sociali dell’essere maschi e femmine l’eterosessualità è forse la più forte. (…) L’orientamento sessuale eterosessuale è preferibile all’omosessualità, un’identità di genere congruente al sesso biologico è preferibile alla transessualità, poiché vengono considerati naturali e ovvi; ciò che si distanzia da questa normalità viene considerato un difetto nel binarismo di genere. Chi decide che un certo comportamento è “normale” siamo noi che, ancorati a certi principi e stereotipi, decidiamo di vivere ignorando altre realtà”. Un’impostazione quindi che abbraccia il principio (tipicamente gender) dell’indifferenza del sesso biologico rispetto all’identità psicologica: avere una identità di genere congruente oppure contrastante con il sesso biologico sarebbe ugualmente normale.

Sulla stessa linea si colloca il percorso formativo “Educare alle differenze di sviluppo sessuale, identità di genere, ruolo, orientamento affettivo sessuale e situazione familiare”, proposto da “Intersexioni”, per il personale educatore e insegnante e realizzato a Vaiano (Prato) nel gennaio 2015. Si legge che “Il percorso mira allo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze nell’utilizzo a fini educativi dei più recenti risultati degli studi di genere, dei queer studies e dei family studies”. E’ costituito da tre moduli intitolati: La formazione dell’identità e gli stereotipi di genere”; “Dalla famiglia alle famiglie”; “Binarismo sessuale, varianza di genere e accoglienza delle differenze”.

Nel mese di ottobre 2014, la Regione Lazio spende 120 mila euro per realizzare una serie di progetti scolastici contro l’omofobia. Il presidente della Regione Zingaretti sottolineò l’importanza della cosa anche per l’ampiezza dell’iniziativa, rivolta a ben 25 mila studenti di 50 scuole secondarie di primo e secondo grado del Lazio. Uno dei progetti si intitola “LGBT ... All Right(s)!” e si propone di far acquisire a docenti e a studenti “informazioni, conoscenze, strumenti e metodologie per combattere l’omo-lesbo-transfobia e promuovere i diritti sociali per le persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali)”, così anche trasmettere informazioni “relative ai concetti di identità di genere/sessuale, orientamenti sessuali LGBT.

BludentalMerita di essere menzionato anche il progetto “Rainbow – Playful Toolkit” (Milano, 2012), finanziato dall’Unione Europea, che “mette in connessione associazioni gay e lesbiche europee, scuole e professionisti dei media attraverso lo studio degli stereotipipromuove il diritto di bambini e bambine, ragazze e ragazzi alla loro identità – con particolare riferimento al genere e all’orientamento sessuale ...” (p. 5). Leggiamo a p. 7: “Le prescrizioni sociali sul genere (ruoli di genere) amplificano quindi le differenze tra maschi e femmine, che non sono però mai “universali”. (...) Tra le aspettative sociali relative all’essere maschi e femmine, l’eterosessualità (...) è forse la più forte”. A p. 8: Gli stereotipi relativi al genere (...) condizionano la nostra educazione sin dalla nascita anche in riferimento alle emozioni”. A p. 9: “È importante riconoscere questa discriminazione sociale … contrastarla e superarla, dando visibilità ai tanti esempi di matrimonio omosessuale e di famiglie omogenitoriali. Il progetto contiene inoltre dei giochi, tra i quali: “Chi resta indietro?” (pp. 18-19), in cui si chiede ai ragazzi di calarsi nei panni di un personaggio, che può essere ad esempio un “uomo gay con compagno convivente da 10 anni”, oppure un transessuale MtF con compagn* extracomunitario” (l’asterisco è tipico del linguaggio gender, per non “discriminare” utilizzando una parola al maschile o al femminile).

Infine, i principi e le conseguenze della teoria gender hanno ispirato tutta una serie di favole rivolte a bambini molto piccoli, incluse in progetti destinati anche agli asili nido o presenti in molte biblioteche comunali nel settore infanzia.

Un esempio noto è “Nei panni di Zaff” (edizioni Fatatrac, 2005). Il libro è stato inserito in diversi progetti alla lettura: ad esempio è stato oggetto di una “lettura animata” ai bambini delle scuole primarie nel progetto “Generare culture non violente”, a Bari nel mese di novembre 2014. Racconta la storia di un bambino, potremmo dire, transgender, che vuole essere una “principessa” e che realizza felicemente il suo desiderio. Leggiamo: “Tutti gli dicevano: Ma Zaff! Tu 6 maschio. Puoi fare il re … ma la principessa proprio no. Le principesse il pisello non ce l’hanno!!”; Zaff: “E va bene, ho il pisello ma che fastidio vi dà? Lo nasconderò ben bene sotto la gonna …”. A un certo punto arriva la principessa “sul pisello”, che consegna il suo vestito a Zaff, dicendogli che potrà essere “la principessa col pisello”. “Il segreto per vivere per sempre felici e contenti: Essere ciò che sentiamo di essere senza vergognarsi mai”.

A livello delle conseguenze della teoria di genere, molte favole promuovono la normalità e la “bellezza” dell’omosessualità e, in particolare, dell’omogenitorialità. E’ il caso della favola “Perché hai due papà?” (edizioni Lo Stampatello, 2014), che è stata proposta in asili nido, ad esempio, nel Comune di Venezia e a Roma (asilo nido “Castello Incantato”, Bufalotta, novembre 2014). Si tratta della storia di una coppia gay che ricorre all’utero in affitto per avere dei bambini. Nella favola si legge:Franco e Tommaso si amavano: volevano fare una famiglia e avere dei bambini. (…) Franco si è fatto dare un ovino nella clinica americana. (…) i dottori hanno fatto incontrare l’ovino e il semino portati da Franco e Tommaso, e li hanno messi nella pancia di Nancy: Lia ha cominciato a crescere! Lia ha due papà: nessuno dei due l’ha portata nella pancia ma entrambi, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori.” E’ preoccupante questa promozione della cosiddetta omogenitorialità verso bambini così piccoli, oltretutto giustificando e presentando come “meravigliosa” la pratica dell’utero in affitto che costituisce reato nel nostro paese.

Molti altri esempi di progetti e iniziative gender nelle sistema scolastico si possono reperire nel dossier pubblicato da ProVita su questo tema (la lista di casi però non è esaustiva).

Recenti mutamenti normativi (su questo sito abbiamo parlato spesso della “Buona scuola“) potrebbero portare a introdurre la prospettiva gender obbligatoriamente anche nelle attività curricolari.

Insomma, la teoria gender esiste, anche nelle nostre scuole.

Purtroppo non ci siamo inventati nulla.

Alessandro Fiore

 

DIFENDIAMO I BAMBINI E LA FAMIGLIA DALLA LEGGE CIRINNA’

 

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