07/02/2014

“L’obiezione di coscienza dei farmacisti: tra bioetica, deontologia professionale e biodiritto” – Intervento del dr. Giacomo Rocchi

“L’obiezione di coscienza dei farmacisti: tra bioetica, deontologia professionale e biodiritto” – 5 febbraio 2014. Intervento del dr. Giacomo Rocchi, Consigliere della Corte di Cassazione

La risposta del 26 settembre 2013 del Sottosegretario Paolo Fadda all’interrogazione parlamentare n. 5/01078 ha riproposto il tema dell’obiezione di coscienza dei farmacisti alla vendita delle “;pillole dei giorni dopo”.
Di fronte ad una lettura formalistica della normativa vigente, l’intervento sottolinea che il diritto all’obiezione di coscienza ha fondamento costituzionale nell’art. 2 della Costituzione (sentenza Corte Cost. n. 467 del 1991), e che l’obbligo di garantirlo discende dall’adesione dell’Italia alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (decisione Corte 22/11/2011, Caso Ercep contro Turchia; Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1763 del 2010).
Anche il diritto alla vita del concepito – messo in pericolo dai potenziali effetti antinidatori dei preparati di cui si discute – trova il suo fondamento nell’art. 2 della Costituzione (sent. Corte Cost. n. 27 del 1975, n. 35 del 1997).
In attesa di una norma che garantisca espressamente il diritto, è quindi doveroso interpretare in senso costituzionalmente orientato l’art. 9 della legge 194 del 1978, riconoscendo che l’obiezione di coscienza è permessa per ogni condotta che possa provocare la morte del concepito. In effetti, la legge 40 del 2004 individua nel concepimento (a prescindere dall’annidamento) l’inizio della vita umana, e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza del 18/10/2011) ha definito embrione umano “;qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione”.
L’intervento dimostra, infine, che le sanzioni penali paventate nella Risposta non hanno alcun fondamento nelle norme dell’art. 328 e dell’art. 331 cod. pen.

1. La risposta del Sottosegretario alla Salute all’interrogazione parlamentare.
La mia riflessione deve prendere l’avvio dal testo della Risposta scritta del Sottosegretario alla Salute Paolo Fadda all’interrogazione degli onn. Marisa Nicchi ed altri pubblicata il 26/9/2013.
Il Sottosegretario ricorda che la “;pillola del giorno dopo” è classificata come contraccettivo e non come abortivo, in quanto agisce in un momento anteriore all’innesto dell’ovulo fecondato nell’utero materno. Dopo aver segnalato che il preparato può essere venduto solo dietro prescrizione medica, afferma subito dopo che “;nessun medico può essere obbligato alla prescrizione di farmaci”, ma inquadra il rifiuto di alcuni medici di prescrivere la pillola in questione come mero “;esercizio della clausola di coscienza” e non dell’esercizio dell’obiezione. Sì, perché, secondo il Sottosegretario Fadda, il diritto all’obiezione di coscienza è concesso – mi permetto di richiamare l’attenzione sul verbo utilizzato: il diritto è concesso – solo per l’interruzione volontaria della gravidanza.
La posizione dei farmacisti, secondo la Risposta, è diversa: “;I farmaci prescritti dal medico devono essere disponibili e non possono essere negati dal farmacista, dal momento che la legge non prevede l’obiezione di coscienza dei farmacisti quando forniscono i medicinali. Sarebbe infatti impossibile stabilire su quali farmaci si possa applicare l’obiezione di coscienza. I farmacisti, quindi, nel rispetto dell’articolo 38 del regio decreto n. 1706 del 1938 (regolamento del servizio farmaceutico), sono tenuti, dietro prescrizione medica, a consegnare il farmaco o a procurarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile”.
Il Sottosegretario prefigura anche le conseguenze ai farmacisti riottosi alla consegna del preparato: “;Il farmacista che contravviene agli obblighi ed alle responsabilità professionali incorre nelle sanzioni amministrative; la sua condotta potrebbe, altresì, integrare anche gli estremi dei reati di omissione di atti di ufficio o rifiuto di atti di ufficio ed interruzione di pubblico servizio o di pubblica necessità”.

Si tratta di risposta – forse inevitabile, provenendo da un Ministero – in cui è facile intravedere l’ottica giuspositivista, in base alla quale la legge è fonte di tutto:
– è fonte delle definizioni scientifiche: la legge stabilisce se un determinato preparato è un “;farmaco” e se il suo effetto è abortivo o contraccettivo;
– è fonte dei diritti, riconosciuti o negati: il diritto ad abortire della donna, così come il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario hanno la loro fonte esclusivamente nella legge; cosicché se la legge stabilisce che la donna munita di certificato ha diritto a vedersi consegnata la pillola del giorno dopo, il diritto è indiscutibile e con esso il conseguente obbligo del farmacista (anzi: di ogni farmacista) a consegnarlo; e, soprattutto il diritto all’obiezione di coscienza possiede l’ampiezza e i limiti scritti nella legge: quindi può essere negato a talune categorie (ad esempio ai farmacisti) o con riferimento a talune “;pratiche”, pur essendo esse “;vicine” all’aborto (per esempio, le “;pillole dei giorni dopo”).
Se la fonte dei diritti è esclusivamente la legge, è evidente la possibilità per il legislatore di negare successivamente un diritto in precedenza riconosciuto o di modellare o limitare il diritto a suo piacimento.
– la legge è fonte anche delle caratteristiche delle professioni: se il legislatore dice che il farmacista deve somministrare tutti i farmaci oggetto delle prescrizioni mediche, senza alcun tipo di controllo o di valutazione, la professione del farmacista diventa quello di dispensatore di farmaci.

Altrettanto inevitabile, in questa ottica, è la previsione delle sanzioni: una legge che stabilisce diritti e doveri non può che punire coloro che non rispettano gli obblighi prescritti; ancora una volta le sanzioni saranno, ovviamente, quelli previste dalla legge.
Si potrebbe dire che il cerchio si chiude.

2. Qualche domanda senza risposta soddisfacente.
Non è questa la sede per contestare la visione giuspositivista del diritto e della società; ma – in questo luogo così importante per un magistrato, che “;è soggetto alla legge” e che riconosce, quindi, nel Parlamento il punto di riferimento, l’interprete della volontà popolare, quindi il rappresentante del popolo in nome del quale è chiamato a pronunciare le sentenze (art. 101 Cost.) – è doverosa qualche riflessione che permetta di superare la semplice lettura piana e formalista delle disposizioni di legge.

In effetti, il quadro disegnato nella Risposta del Sottosegretario è insoddisfacente da diversi punti di vista e non risponde a domande importanti che, invece, in questa sede hanno rilievo:
– in primo luogo, quando sostiene che “;sarebbe impossibile stabilire su quali farmaci si possa esercitare l’obiezione di coscienza”, la risposta appare abbastanza ipocrita: è evidente che i farmacisti rivendicano il diritto sulla base della regolamentazione già presente per l’obiezione di coscienza all’aborto e, quindi, intendono rifiutare la distribuzione dei farmaci antinidatori, di cui conoscono gli effetti (del resto riportati anche nelle stesse istruzioni contenuti nelle confezioni e che lo stesso Segretario richiama espressamente: “;agisce in un momento anteriore all’innesto dell’ovulo fecondato nell’utero materno”);
– la risposta è, poi, tautologica, quando nega l’obiezione di coscienza perché esiste l’obbligo sancito dal R.D. 1706: si può parlare di obiezione di coscienza solo se esiste un obbligo; se un obbligo ad una determinata condotta o prestazione non esiste (o non esiste più) il problema dell’obiezione di coscienza scompare (si pensi al servizio militare: una volta deciso che esso non è più obbligatorio, la tematica dell’obiezione di coscienza è ovviamente venuta meno); quindi sostenere che l’obiezione di coscienza non può essere concessa in quanto un obbligo deve essere rispettato è una contraddizione logica;
– la risposta, infine, è del tutto insoddisfacente perché, appunto, tace (e forse non si pone nemmeno il problema) se la normativa così delineata è giusta, se non viola altri diritto od obblighi; se, quindi, è conforme a Costituzione.
Eppure è legittimo chiedersi se lo Stato italiano si disinteressi della libertà di coscienza e della libertà religiosa dei farmacisti e per quale motivo; o se la distribuzione delle farmacie sul territorio in Italia e il meccanismo di consegna dei farmaci sia talmente scarsa e precaria da rendere impossibile il rifiuto, per motivi di coscienza, di alcuni preparati da parte di alcune farmacie (o di alcuni farmacisti); o, ancora, se le “;pillole dei giorni dopo” siano “;farmaci salvavita”, che devono essere consegnati al più presto. Quanto a quest’ultimo profilo, piuttosto, si nota un’evidente “;forzatura” nella risposta del Sottosegretario, che pretende di trasformare il termine di 72 ore dal rapporto sessuale e l’indicazione preferenziale per la prima assunzione dopo 12 ore come un termine tassativo, per di più origine dell’obbligo per il farmacista di consegna immediata.

3. I fondamenti giuridici dell’obiezione di coscienza.
Dobbiamo, allora, ritornare ai fondamenti giuridici dell’istituto dell’obiezione di coscienza: operazione doverosa perché una visione gretta e limitata del diritto – Stato, legge, diritto – non regge nemmeno tra gli interpreti del diritto.

3.1. Paradossalmente, questo richiamo non dovrebbe essere nemmeno necessario, tenuto conto che in un’altra legge il Parlamento ha già delineato con parole altissime quali sono i fondamenti di questo istituto.
La legge 413 del 1993 sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, infatti, riconosce il diritto all’art. 1 con passaggi davvero significativi: “;I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà  di  pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei  diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e  politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale”.
Forse questo articolo dovrebbe essere per intero trasferito in una norma che riconoscesse il diritto all’obiezione di coscienza ai farmacisti alla consegna della pillola del giorno dopo: gli embrioni che rischiano di non potersi annidare nell’utero materno non sono forse “;essere viventi”? Nessuno lo nega; per di più – qualcuno potrebbe osservare – sono esseri viventi appartenenti alla specie umana e non a quella animale.
Notiamo che la “;violenza sugli esseri viventi” non presuppone affatto che la vittima senta fisicamente una sofferenza, perché l’obiezione è riconosciuta in via generale, a prescindere dalla natura degli esperimenti che possono essere messi in atto e delle conseguenze sull’animale.
La legge 413, nel richiamare l’opposizione alla violenza su “;tutti” gli esseri viventi, in realtà, vuole chiaramente comprendere sia gli animali che gli uomini: avrebbe forse un senso l’opposizione alla violenza sugli animali congiunta ad una tolleranza alla violenza sugli uomini?

Vediamo, allora, quali sono i richiami che il legislatore del 1993 si è sentito in dovere di effettuare per porre basi solide ad un istituto i cui potenziali effetti sull’economia e anche sulla salute umana (visto che spesso la sperimentazione animale viene giustificata dalla necessità di realizzare farmaci per uso umano) non sono irrilevanti: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Questi trattati internazionali garantiscono che il cittadino possa “;obbedire alla propria coscienza”.

Non solo: questa garanzia si trasforma in un rigoroso divieto di discriminazione, perché l’art. 4 della legge 413 dispone che nessuno possa subire  conseguenze sfavorevoli per essersi rifiutato di praticare o di cooperare all’esecuzione della sperimentazione animale; riconosce ai soggetti che dichiarino la propria obiezione di coscienza il diritto, qualora siano lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ad essere destinati ad attività diverse da quelle che prevedono la sperimentazione animale, conservando medesima qualifica e medesimo trattamento economico; obbliga gli organi universitari a rendere facoltativa la frequenza alle esercitazioni di laboratorio in cui è prevista la sperimentazione  animale.

Il dubbio sulla legittimità del diverso trattamento dei farmacisti rispetto agli obiettori di coscienza alla sperimentazione animale è più che giustificato.

3.2. Come sappiamo, comunque, l’art. 2 della Costituzione afferma che la Repubblica “;riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”.
L’interpretazione pacifica è che quella norma non si riferisce soltanto agli specifici diritti che le norme della Costituzione riconoscono e regolamentano (diritto alla libertà personale, inviolabilità del domicilio, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di associazione ecc.), ma ad una serie di diritti preesistenti allo Stato (che infatti, li “;riconosce”, non li crea).
Lo Stato, sebbene non li abbia creati (ma, appunto, li “;riconosca”), ugualmente “;garantisce” quei diritti, cioè li tutela in una forma giuridicamente efficace.

Ebbene, la Corte Costituzionale ha affermato esplicitamente che dall’art. 2 della Costituzione discendono direttamente sia la tutela del diritto alla vita del concepito (sentenza n. 27 del 1975), sia la garanzia del diritto all’obiezione di coscienza.

Mi soffermo un attimo sui diritti inviolabili riconosciuti all’embrione umano: con la sentenza n. 35 del 1997 la Corte ha ribadito il principio che la vita umana debba essere tutelata sin dal suo inizio, già affermato in modo non equivocabile dalla sentenza n. 27 del 1975, sottolineando che esso “;ha conseguito nel corso degli anni sempre maggiore riconoscimento, anche sul piano internazionale e mondiale”; ricordando la Dichiarazione sui diritti del fanciullo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1959 a New York, nel cui preambolo è scritto che “;il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita”.
La Corte ha riaffermato la concezione, insita nella Costituzione italiana, in particolare nell’art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “;all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, ritenendo che nell’art. 1 della legge 194 del 1978 sia ribadito il diritto del concepito alla vita.

Ma, appunto, anche l’istituto dell’obiezione di coscienza ha il suo fondamento nel riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo.
Mi permetto di richiamare un passo della sentenza della Corte Costituzionale n. 467 del 1991, che intervenne sulla disciplina dell’obiezione di coscienza al servizio militare (allora obbligatorio): “;A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico.
In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che – quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana.
Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza).”

Quindi: la tutela della libertà di coscienza “;giustifica la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili”; quindi, se perfino quel “;sacro dovere del cittadino” di difendere la Patria (così definito dell’art. 52 della Costituzione) può vedere “;esenzioni”, perché non dovrebbe essere possibile un’esenzione dall’obbligo di somministrare determinati “;farmaci” (obbligo che non è certo “;sacro”, ma discende semplicemente da una legge) sulla base dell’obiezione di coscienza?

Ricordiamo, ancora, che la Corte Costituzionale ha ritenuto ingiustificato il trattamento discriminatorio nei confronti degli obiettori di coscienza: la sentenza n. 470 del 1989, che dichiarò illegittima la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare nella parte in cui prevedeva un servizio sostitutivo più lungo rispetto a quello di leva, osservava che “;la differente durata del servizio sostitutivo rivestirebbe chiaramente quel significato di sanzione nei confronti degli obiettori che già si è stigmatizzato, ledendo, altresì, i fondamentali diritti tutelati dal primo comma dell’art. 3 e dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione, in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero”.

3.3. Ma la legge statale è sottoposta anche al diritto internazionale: come dimenticare che l’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (cui l’Unione Europea, come è noto, ha aderito) riconosce espressamente la “;libertà di coscienza”, così come anche l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (che abbiamo già visti richiamati dalla legge 413 del 1993)?

Questo richiamo ci permette di comprendere i rapporti davvero significativi tra i tentativi di limitare l’obiezione di coscienza e la forma democratica dello Stato.
In un caso recente (Caso Ercep contro Turchia, 22/11/2011), riguardante la repressione dell’obiezione di coscienza al servizio militare da parte di persone appartenenti ai Testimoni di Geova, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha usato espressioni accorate, ribadendo che “;ciò che è protetto dall’Articolo 9 della Convenzione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, è uno dei fondamenti di una “;società democratica” ai sensi della Convenzione. Si tratta, nella sua dimensione religiosa, di uno degli elementi più essenziali per l’identità dei credenti e per la loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti. Si tratta del pluralismo, conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli e da cui dipende il tipo di società. (…) il giudice deve tener conto della necessità di garantire un vero pluralismo religioso, di vitale importanza per la sopravvivenza di una società democratica (…) il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura sono le caratteristiche di una “;società democratica”.
Benché sia necessario talvolta subordinare gli interessi individuali a quelli di un gruppo, la democrazia non significa semplicemente la supremazia costante dell’opinione di una maggioranza: deve essere raggiunto un equilibrio che garantisca l’uguaglianza di trattamento delle persone appartenenti alle minoranze e eviti qualsiasi abuso della posizione dominante”.

Si deve ancora ricordare che con la Risoluzione n. 1763 adottata il 7/10/2010, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa “;appoggiava fermamente il diritto all’obiezione di coscienza” e invitava gli Stati membri a garantirla, disponendo che “;nessuna persona, nessun ospedale o altro istituto sarà costretto, reso responsabile o sfavorito in qualsiasi modo a causa di un rifiuto ad eseguire, facilitare, assistere o essere sottoposto ad un aborto o a qualsiasi atto che potrebbe provocare la morte di un feto o embrione umano, per qualsiasi ragione”.

3.4. Solo un ultimo accenno all’importanza dell’obiezione di coscienza rispetto all’aspetto deontologico delle professioni, cui si è accennato: pluralista e democratico è quello Stato che riconosce uno spazio all’autoregolamentazione delle professioni e, quindi, valore alle regole deontologiche elaborate ed approvate dagli ordini professionali. Tale obbligo discende dagli artt. 2 e 4 della Costituzione.
Questo aspetto è stato affrontato dal Comitato nazionale di Bioetica nel documento sull’obiezione di coscienza del 12/7/2012: in esso si afferma, tra l’altro che “;Oltre alla dimensione puramente individuale dell’obiezione di coscienza, vi è una dimensione professionale in cui la coscienza (cum-scientia) si costituisce all’interno di un ethos professionale definendosi in funzione dei fini caratterizzanti la singola professione.
La possibilità dell’obiezione di coscienza mantiene vivo il senso dell’identità professionale impedendo l’eterodeterminazione – per legge o comunque per imposizione dall’esterno – dello statuto professionale della categoria di professionisti in considerazione. (…)
Nella formazione dell’ethos professionale, insomma, sembrano convergere l’autoriflessione personale, di cui l’obiezione di coscienza è espressione diretta, e una dimensione più ampia che coinvolge l’intera comunità professionale, necessaria sia per la tutela degli aderenti sia per generare una sintesi valutativa fra i diversi punti di vista di coloro che esercitano una medesima professione.
Invece l’idea che una scelta professionale implichi un’accettazione automatica di compiti imposti ex lege – magari anche contro il codice deontologico – è figlia di una concezione autoritaria del diritto che non ammette l’autonomia dei corpi professionali nella definizione dei propri fini e quindi della propria identità riducendo la professione a una mera tecnica spersonalizzante, pura competenza di mezzi, insensibile alla questione dei fini”.

4. L’articolo 9 della legge 194 del 1978 come adempimento di un obbligo per il legislatore.
Giungiamo, quindi, ad una conclusione: quando, nel 1978, il legislatore della legge 194 scrisse l’art. 9, riconoscendo l’obiezione di coscienza alle pratiche di interruzione della gravidanza a favore del personale sanitario non lo fece per una concessione, per usare l’espressione del Sottosegretario alla Salute su cui, all’inizio, ho posto l’accento; lo fece, piuttosto, in adempimento ad un obbligo costituzionale e convenzionale, che sorgeva nel momento in cui venivano depenalizzate e rese lecite e obbligatorie pratiche rispetto alle quali sorgeva un conflitto con la sfera intima della coscienza individuale (richiamando l’espressione usata dalla Corte Costituzionale).

La natura di riconoscimento doveroso si coglie dalla circostanza che il diritto dell’obiettore sorge in conseguenza di una dichiarazione immotivata, e non di una domanda le cui ragioni possono essere vagliate; né il diritto può essere in qualche modo condizionato ad esigenze diverse.
Il legislatore del 1978 ha ritenuto che nessuno possa entrare nella coscienza del sanitario e sindacarla.

Tale natura si coglie anche dalla descrizione delle attività coperte dalla dichiarazione di obiezione: comprende tutte le attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza; quindi, come sappiamo, non solo l’attività dell’intervento, ma anche altre: sappiamo, ad esempio, che il Consiglio di Stato (Consiglio di Stato sez. V, 10 ottobre 1983 n.428, in “;Consiglio di Stato” vol. I, 1983, p.1027-1028) ha ritenuto illegittimo l’ordine di servizio che imponesse ai medici addetti ai laboratori di analisi di eseguire esami di laboratorio dichiaratamente finalizzati alla IVG, sentenza che fa comprendere come il massimo organo di giustizia amministrativa abbia appunto adottato l’ottica che riconosce il diritto all’obiezione di coscienza come obbligatorio da parte dello Stato.

Infine, la natura obbligatoria del riconoscimento si ricava dalla circostanza che l’onere di garantire l’efficienza del servizio non è posto a carico degli obiettori di coscienza, ma delle ASL e delle Regioni.

Ma, se il legislatore del 1978 adempiva ad un obbligo, questo, a sua volta non discendeva da una specifica norma costituzionale, ma dal richiamo effettuato dall’art. 2 della Costituzione ai diritti inviolabili, preesistenti al legislatore costituente che, quindi, come si è visto, li riconosce e non li crea.
Ecco che l’obbligo per il legislatore ha senso perché il riferimento è ad una realtà naturale, che il legislatore non definisce ma di cui prende atto: realtà che è quella del concepimento e dell’inizio della vita umana da quell’istante.
È evidente che, se il legislatore pretende di definire – a prescindere e addirittura contro la realtà naturale – ciò che è vita e il momento in cui inizia la vita, vuol dire che può fare tutto quello che vuole e, quindi, non ha nessun obbligo. Ma, appunto, la realtà naturale di concepimento, così come quella di coscienza individuale, non si possono deformare a proprio piacimento, non si possono ridefinire.
Uno Stato che pretende di definire che un essere vivente non è tale, così come che una persona con grave compromissione della coscienza non è effettivamente viva, si avvia a trasformarsi in uno Stato autoritario.

Tornando, quindi, all’art. 9 della legge 194, che riconobbe l’obiezione di coscienza, è evidente che il legislatore del 1978 sentì quell’obbligo perché era consapevole che alcuni operatori sanitari sentono di non potere uccidere un essere umano vivente.
La norma non riconobbe, cioè, il diritto ad obiettare ad una procedura – altrimenti avrebbe ragione il Sottosegretario quando individua la difficoltà a determinare l’ambito dell’obiezione di coscienza. No: la legge prese atto che alcune persone non possono sopprimere esseri umani viventi e attribuì loro il diritto ad astenersene.

5. L’obbligo costituzionale di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza dei farmacisti alla vendita della pillola del giorno dopo.
Il quadro che abbiamo tracciato fa comprendere, in primo luogo, che il legislatore ha il medesimo obbligo costituzionale di garantire il diritto all’obiezione di coscienza anche ai farmacisti rispetto alla distribuzione della pillola del giorno dopo.

Abbiamo, infatti, visto che l’uso della pillola può provocare la morte dell’embrione; è assolutamente scontato che la distribuzione del preparato da parte del farmacista costituisca un contributo diretto a determinare questa morte. Del resto la stessa risposta del Sottosegretario, ed in particolare la minaccia di sanzioni penali, dimostra la rilevanza decisiva attribuita all’opera del farmacista.

Sia ben chiaro: la scelta è del legislatore. Sappiamo che taluni – anche con modalità provocatorie – sostengono che la pillola del giorno dopo dovrebbe essere venduta liberamente e che dovrebbe essere possibile trovarla accanto ai preservativi al supermercato ed acquistarla anche senza ricetta medica.
Il legislatore ha ritenuto per il momento il contrario (e ritengo ci siano buone ragioni in questa direzione) ma, appunto, ha creato un obbligo per il farmacista: obbligo che, come già osservato, fa sorgere la questione del riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Se riterrà che la pillola del giorno dopo venga commercializzata diversamente ed eliminerà tale obbligo, la questione svanirà.

Né il legislatore può trincerarsi dietro la distinzione tra soppressione dell’embrione prima dell’annidamento e dopo l’annidamento nell’utero della madre. E ciò, non solo per quanto si è già detto sulla impossibilità di ridefinire la realtà naturale, ma anche perché – a livello normativo – lo stesso legislatore, con la legge 40 del 2004 – ha già affermato la esistenza della vita dal momento della fecondazione dell’ovulo, cioè del concepimento; e in quanto anche a livello sopranazionale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 18/10/2011, ha definito embrione umano “;qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione”. La Corte Costituzionale, comunque, ha attribuito i diritti inviolabili al concepito, quindi dal momento del concepimento.

Il conflitto di coscienza che può proporsi al farmacista obbligato a vendere la pillola del giorno dopo, in definitiva, ha la stessa natura e il medesimo oggetto di quello che può presentarsi al medico o ad un altro sanitario obbligato ad eseguire o a cooperare ad un aborto chirurgico; e sussistono le medesime ragioni già esposte per riconoscere il conflitto di coscienza come niente affatto pretestuoso e, quindi, meritevole di un intervento di tutela da parte del legislatore.

6. L’interpretazione dell’art. 9 della legge 194 del 1978 nel senso di un riconoscimento del diritto dei farmacisti.
In attesa di un intervento del legislatore che riconosca esplicitamente il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista con le stesse caratteristiche riscontrate quanto alla sperimentazione animale o quanto all’interruzione di gravidanza, si può – anzi, direi: si deve – sostenere un’interpretazione dell’articolo 9 della legge 194 del 1978 per cui la nozione di “;interruzione della gravidanza” comprenda anche la fase anteriore all’annidamento dell’embrione nell’utero; in questo modo applicando la norma anche per il caso del farmacista che deve consegnare la pillola del giorno dopo.

In effetti, premesso che non è in discussione l’appartenenza dei farmacisti al “;personale sanitario”, si può giungere a questo risultato tenendo conto di ciò che è cambiato dall’epoca di approvazione della legge 194 sull’IVG.
I mutamenti sono, in sostanza, di tre tipi:
– nel 1978 l’unico tipo di intervento abortivo contemplato era quello chirurgico; benché non sia affermato esplicitamente, ciò emerge dall’intero complesso della normativa che, non a caso, parla ripetutamente di “intervento” di interruzione di gravidanza, con ciò intendendo quello chirurgico. E, infatti, in quell’epoca non era disponibile alcun preparato chimico legale che provocasse la morte dell’embrione: né la pillola del giorno dopo (che, appunto, sarà commercializzata nel 2000), né tanto meno la RU 486.
In sostanza, all’orizzonte del legislatore del 1978 non esisteva alcuna possibilità concreta di provocare la morte dell’embrione nel periodo tra il concepimento e l’annidamento in utero: è comprensibile che la legge non se ne occupasse.
– le conoscenze scientifiche hanno, in questi decenni, ulteriormente e definitivamente dimostrato ciò che (comunque) era già conosciuto nel 1978: la vita umana comincia dal momento del concepimento, nel senso che da quel momento non esiste nessun salto nella crescita dell’embrione, non avverrà mai nessun mutamento di natura dell’embrione stesso e il suo patrimonio genetico è già interamente presente e non muterà fino alla morte;
– il quadro legislativo è decisamente mutato rispetto al momento dell’approvazione della legge 194/78: l’affermazione – presente nell’articolo 1 della legge 194 – secondo cui “Lo Stato … tutela la vita umana dal suo inizio”, che era indeterminata quanto al momento di “inizio della vita umana”, non può che essere interpretata alla luce della norma successiva – la legge 40 del 2004 sulla PMA già menzionata – che tutela l’embrione umano in ogni fase della sua esistenza, al momento del concepimento, senza in nessun modo legare la doverosità della tutela all’annidamento in utero dello stesso.
In effetti la legge 40 – sotto questo profilo – deve essere letta come integrativa rispetto alla legge 194 che fa salva e richiama per la fase successiva all’annidamento in utero dell’embrione, ma cui aggiunge una regolamentazione relativa alla fase precedente all’annidamento.

Se, quindi, la ratio dell’art. 9 della legge 194 era di tutelare il sanitario la cui coscienza impediva di cooperare alla morte dell’embrione, è ben possibile interpretare il concetto di interruzione di gravidanza come intervento che determina la morte dell’embrione.
Richiamo qui il principio interpretativo – proprio dei giudici – secondo cui ogni testo di legge deve essere interpretato in senso conforme alla Costituzione, tanto che, prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale di una norma, si deve verificare se quella norma possa essere interpretata in modo diverso, in senso conforme a Costituzione.

7. La minaccia di sanzioni penali.
Pochi accenni per sostenere che la minaccia di sanzioni penali presente nella Risposta del Sottosegretario sia infondata.
In primo luogo – e basterebbe questo – l’interpretazione dell’articolo 9 così come proposta fa sì che il rifiuto del farmacista di vendere il preparato alla donna che si presenta con la ricetta del medico sia opposto in base ad un diritto riconosciuto dal legislatore, e sia quindi scriminato in base all’art. 51 del codice penale (“L’esercizio di un diritto … esclude la punibilità”).

Ma anche una brevissima analisi delle due fattispecie penali invocate fa comprendere come esse non possano in ogni caso trovare applicazione.

L’art. 328 codice penale (Rifiuto ed omissioni di atti di ufficio), per la punizione dell’incaricato di pubblico servizio (tale potendosi considerare il farmacista) che rifiuta un atto del suo ufficio, richiede che ciò avvenga indebitamente e che l’atto debba essere compiuto senza ritardo.
“;Indebitamente” è una clausola normativa di illiceità speciale (secondo la teoria generale del diritto) con cui il legislatore recupera fonti di tipo diverse dalla stessa legge penale per fondare la valutazione di illiceità: questo significa che, nel caso di specie, il rifiuto “indebito” non deve ritenersi solo quello “non permesso dalla legge”, ma anche quello “non permesso anche da norme extrapenali”. Quindi – anche a non volere ritenere applicabile l’art. 9 della legge 194 al farmacista in questo caso – il richiamo alla clausola di coscienza (norma di tipo deontologico) fa sì che il rifiuto non sia indebito: perché, in realtà, vi è spazio per un rifiuto della distribuzione basato su precetti deontologici, tenuto conto che il Codice Deontologico impone al farmacista di “;operare in piena autonomia e coscienza professionale, conformemente ai principi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto della vita” nonché di procedere al controllo della ricetta.
La Cassazione ha ripetutamente stabilito (sia pure in fattispecie del tutto diverse) che non è integrato il delitto previsto dall’art. 328, comma primo, cod. pen. quando l’atto il cui compimento si richiede al pubblico ufficiale venga a ledere suoi diritti costituzionalmente garantiti non potendosi, in tale ipotesi, considerare indebito il rifiuto (Sez. 6, n. 23107 del 07/06/2012 – dep. 12/06/2012, Mazzocco, Rv. 252884).
Ma è soprattutto la natura di atto da compiersi senza ritardo a rendere inapplicabile la fattispecie penale nel caso in questione: abbiamo già visto che, tenuto conto dei tempi possibili di assunzione della pillola, di fronte al rifiuto di un farmacista, la donna avrà il tempo di recarsi presso un’altra farmacia.
In effetti, la disposizione dell’art. 328, comma 1, cod. pen., con riferimento al delitto di rifiuto di atti di ufficio, non sanziona penalmente la generica negligenza o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma il rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo, per la tutela di beni pubblici, rispetto ai quali gli sono state conferite quelle funzioni pubbliche (Cass., Sez. 6, n. 39572 del 10/10/2002 – dep. 22/11/2002, Giorgetti, Rv. 224038).

Quanto al reato di interruzione di pubblico servizio (articolo 331 c.p.), basta richiamare quanto già appena detto: il rifiuto di un farmacista non turba in alcun modo il servizio pubblico, perché le farmacie sono sparse su tutto il territorio nazionale e l’assunzione di quella pillola non è affatto urgentissima.
Recentemente una sentenza della Cassazione ha applicato il reato di interruzione di pubblico servizio ad un farmacista, affermando il principio secondo cui “;integra il reato di interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità (art. 331 cod. pen.) l’ingiustificato inadempimento delle prestazioni proprie del servizio farmaceutico da parte del titolare di una farmacia in turno di reperibilità” (Sez. 6, n. 46755 del 21/11/2012 – dep. 03/12/2012, P.M. in proc. Chiereghin, Rv. 253560). La motivazione della sentenza indica chiaramente che, in sostanza, il reato è ipotizzabile solo in questo caso, proprio per la funzione attribuita alla farmacia aperta negli orari di chiusura; se, invece, tutte le farmacie sono aperte e, comunque, la consegna del preparato non è affatto urgente, il reato non si può ipotizzare: “;E’ nozione acquisita che il numero delle farmacie in turno di reperibilità negli orari diversi da quelli propri dell’usuale attività lavorativa feriale è inferiore a quello previsto per il servizio in via ordinaria. (…) Riduzione ‘ragionata’ del numero di esercizi aperti al pubblico e permanenza di esigenze contingenti di salute (che, specie quando di apprezzabile rilievo sono con immediatezza riconducibili alla tutela costituzionale del diritto alla salute) concorrono ad individuare nella singola farmacia in turno di reperibilità un presidio indefettibile del complessivo disegno organizzativo volto ad assicurare la necessaria continuità del servizio farmaceutico. Quando pertanto la singola farmacia in turno di reperibilità risulti non accessibile all’utenza, vi è un obiettivo turbamento della regolarità del servizio farmaceutico nel suo complesso”.

Si può fare un’ultima considerazione, con riferimento alla paventata punibilità per il reato di interruzione di pubblico servizio: abbiamo visto che il singolo obiettore di coscienza non è onerato dell’obbligo di garantire il servizio pubblico di IVG, perché tale onere è a carico delle Regioni. Per quanto abbiamo sopra ricordato, il diritto all’obiezione di coscienza è un diritto potestativo dell’individuo, non limitabile per nessun motivo, tanto meno per le possibili difficoltà organizzative conseguenti.

8. Conclusioni.
Nel dibattito giuridico è molto frequente il riferimento alla necessità di un diritto “;mite”, proprio nelle materie che ora sono definite come “;eticamente sensibili”.
Si può concordare o meno: ma davvero non si comprende la necessità di costringere, sotto minaccia di sanzioni penali o economiche, professionisti preparati e diligenti a compiere un’azione insostenibile per la loro coscienza.

Secondo il sottoscritto – qui esprimo un parere personale – l’ostilità verso un ampliamento ragionevole di questo diritto alle ipotesi che la legge 194 del 1978 non poteva prevedere è conseguenza dell’attribuzione agli obiettori di una volontà politica che, al contrario, in essi manca.
Vi sono, certo, nella società forze politiche che contestano la legittimità della legalizzazione dell’aborto e, quindi, la liceità della legge 194; ma gli obiettori in quanto tali – anzi: ciascun obiettore – pretendono solo di esercitare un diritto individuale che, fra l’altro, presuppone e prende atto della vigenza della legge, di cui chiede l’applicazione.
Si può, quindi, tranquillamente riconoscere questo diritto – in forza degli obblighi costituzionali – senza affatto indebolire una posizione che ribadisca la legittimità della legge da altri contestata.

Lo ha osservato anche il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento del 12/7/2012 sull’obiezione di coscienza: “;L’ordinamento che ha posto un certo dovere o obbligo giuridico in ambito biogiuridico non intende contraddirsi ammettendo l’obiezione di coscienza, ma semplicemente non è disposto a chiudere lo spazio di discussione sui valori fondamentali e a non perdere il proprio carattere inclusivo e pluralista. Perciò finché l’ordinamento ha la forza di ammettere l’obiezione di coscienza mantiene un certo equilibrio; quando invece l’obiezione di coscienza non è riconosciuta o gli obiettori vengono discriminati la legalità si riveste nuovamente del carattere creonteo (autoritario) – sola auctoritas facit legem – e l’obiezione di coscienza è costretta a riassumere i tratti tragici del sacrificio di Antigone.
La sfida dello stato democratico è di mantenere la tensione verso i suoi valori fondamentali nel rispetto del principio di legalità”.

Giacomo Rocchi

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