04/11/2016

Mio fratello è Down. Ma siamo tutti imperfetti...

Una persona affetta da sindrome di Down è “normale”?

«Quest’estate c’è stato chi ha detto che in un albergo c’erano troppi disabili e per i suoi figli non era bello. Quest’estate c’è stato chi ha protestato perché nel ristorante i disabili del tavolo accanto davano fastidio. Quest’estate si è parlato dei disabili usando sempre questa parola in un solo modo. Ma se penso a me e a mio fratello penso che io ho un solo modo».

Giacomo Mazzariol, diciannovenne di Castelfranco Veneto, autore della videoclip The Simple Interview e del libro Mio fratello rincorre i dinosauri (si veda qui per entrambiè il fratello di Giovanni, giovanotto affetto da Sindrome di Down, del quale racconta, nella breve Lettera ai normali che evitano mio fratello, la normalità da un punto di vista dimenticato, con il quale mette in crisi i paradigmi moderni che dividono alcuni di noi da altri di noi.

Sembra insolito, nell’epoca del “tutto è possibile”, vedere un confine tra normale e a-normale nella classificazione e/o accettazione degli individui in termini di persone. Sembra inusuale perché l’ideale di perfezione teso all’eliminazione fisica di un bambino deforme appare più materiale storico di epoca greco-romana, dove l’informe veniva messo a morte, o di popoli primitivi, dove alla condanna non era sottoposto solo il figlio, ma anche la madre, colpevole di averlo dato alla luce. Ancora, non è così ovvio constatare la presenza di problematiche come quella della sterilizzazione coatta per persone disabili o la selezione eugenetica, per definizione discriminatoria. Purtroppo, se ragazzi come Giacomo, sentono l’esigenza di dover dare una spiegazione ai “perfetti” di quanto normale sia l’anormalità (nello specifico di una persona con sindrome di Down, ma non solo), forse l’era del progresso altro non fa che riproporre arretratezze culturali con mezzi nuovi, tecnologie illusoriamente facili e veloci e un filantropia di facciata. Quest’ultima, in modo particolare, è sofisticata e ben assestata tra gli ingranaggi che mantengono salda l’omeostasi biopolitica così come è voluta e pensata oggi.

La posizione eretta è simbolicamente l’immagine evolutiva della specie umana che progredisce secondo un processo filogenetico di ascesa dal primitivo imperfetto all’evoluto perfetto. La disabilità, secondo questa linea di pensiero, è un gap culturale e biologico tra ciò che avrebbe dovuto essere e ciò che invece è. Così, l’eugenetica che sembrava dimenticata dopo la fine del nazismo, torna sotto la forma di una prevenzione per il bene sociale di evitare sofferenza a chi sicuramente soffrirà e l’onere a una comunità che deve adoperarsi per aiutare e sostenere chi, a questa collettività, non è in grado di apporre contributo alcuno. Il fratellino down di Giacomo, e come lui molti altri, vengono convertiti, in una visione utilitarista e contrattualista, come il cortocircuito della corsa al progresso migliorativo, una sorta di demonizzazione di ciò che questo avanzamento scarta, lasciandosi alla spalle.

Dove si situa il paradosso?

C’è un’efficace contraddizione, una specie di eterno ritorno della miseria umana, che inganna se stessa con il mito del superuomo. Significa che da un lato la nostra miseria blocca l’accettazione pura della diversità tra uomini di uguale valore, medesima dignità; dall’altro quegli stessi animali selettivi inconsciamente bramano la cura di questa visione limitata ed egoistica, commuovendosi dinanzi a contesti attuali di valorizzazione di questa “anormalità”. Cosa accade? Si calpesta il sentiero qualitativo e valutativo: una vita è degna di essere vissuta se un terzo, estraneo e differente da questa, decreta, attraverso parametri soggettivi di normalità da compiacere, giusta la sua esistenza a seconda che quel figlio sia non perfettibile, ma perfetto fisicamente e biologicamente nell’ottica di una salute intesa come benessere e una potenzialità intesa come efficienza funzionale fisica. Alle radici più attuali troviamo pensatori come F. Nietzsche, che nell’opera L’Anticristo, pubblicata nel 1895, scrisse che «deboli e malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E tale scopo si deve essere loro di aiuto»; Alfred Hoche, professore di medicina, che nel 1920, insieme allo specialista di diritto penale Karl Binding, pubblicò un testo dal titolo L’autorizzazione dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta; Peter Singer, filosofo australiano, anti-specista (sostenitore dell’uguaglianza uomo-animale), stimato utilitarista, che teorizza come lecito l’infanticidio anche di bambini disabili poiché vite degradate, spreco per la spesa sanitaria e socialmente inutili, tanto da porre come eticamente lecita e ragionevole l’eutanasia dei disabili gravi. E ancora, Richard Dawkins, per il quale la scelta di non abortire un bambino con sindrome di Down sarebbe “immorale”.

Una cultura dove prevenire (ed eliminare) è meglio che aver cura, è la stessa che si commuove dinanzi alle paralimpiadi, a testimonianze di adulti privi di arti (Nick Vujicic, Simona Atzori e altri) o di bambini ciechi e autistici che non solo sono estremamente capaci, ma sanno amare più di altri e sanno piegare noi “normali” al loro sguardo, tanto è potente di fronte al nostro egoismo. È la stessa società che non consente uno spot televisivo sulla Sindrome di Down. È la stessa società dove ragazzi disabili dell’associazione Not yet dead, si vedono costretti a manifestare perché giustamente offesi dal dover seguire lezioni universitarie con in cattedra un filosofo che non avrebbe difficoltà a sopprimerli.

Il punto è, come scrive Giacomo e come ci ricorda Martha Nussbaum, tutti gli esseri umani sono mortali, deficitari, mancano di qualcosa, “ognuno è disabile”, ma ciò che ci contraddistingue è ciò che ci rende riconoscibili gli uni agli altri: la sacralità e inviolabilità della nostra vita. La nostra piena dignità intrinseca che nessuno può conferire, ma solo riconoscere, a partire dalla natura umana. Tentare di normalizzare la specie umana, non significa compiacere altruisticamente un’umanità così come deve essere, piuttosto come dovrebbe essere secondo taluni sulla base di canoni prestabiliti e condivisi ma pur sempre limitati in quanto posti dagli uomini stessi.

Normale e anormale non posso configurare il desiderio di perfettibilità di alcuni uomini su altri uomini, tutti ugualmente deficitari. La vecchiaia è anomala, la malattia è anomala, i tratti somatici sono anomali, chi non sa guidare è anomalo per chi guida: l’anomalia è la differenza e l’insostituibilità. Chiunque è anomalo a dispetto di un altro ed è questa la meraviglia!

È ingannevole supporre la discriminazione tra soggetti ideali e soggetti medi. Una società che non contrasta la valutazione materialista dell’alterità sulla base di funzionalità, produttività, efficienza, utilità, è un popolo che non ha chiara la sua natura e zoppica nella sua contingenza.

Giulia Bovassi

Fonte: La Repubblica

Fonte foto: Cinematrografo


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