02/10/2014

Utero in affitto: se i due embrioni potessero parlare...

Una nostra lettrice, Lorenza Formicola, studentessa di giurisprudenza, ci ha inviato un suo singolare esperimento narrativo: un dialogo tra due embrioni impiantati artificialmente nell’ utero di una donna. Ne proponiamo la lettura, densa di considerazioni profonde,  spesso agghiaccianti, ma purtroppo molto reali.

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– Piove!
– ...e io sudo freddo.
– E cosʼè il sudore freddo adesso? Le sai tutte, tu.
– Se la chiamo angoscia mi capisci? Sono angosciato. Le strade della donna che ha deciso di metterci al mondo raccontano spesso di uno che si fa chiamare Dio.
– Ah sì, lo sento anch’io. Dev’essere uno importante: gli si rivolgono spesso con il voi!
– Oggi ho sentito, come spesso in questi giorni, che è Lui che chiama alla Vita. Pare ci sia un senso che, pur avendo già una forma, va cercato per tutta la vita fuori di qui. Si tratta di rispondere alla chiamata di questo Tale che ha dei progetti per noi, progetti grandi. Perché ci ama! In questo discorso, però, c’è qualcosa che non quadra.
– E cosa? Forse il fatto che, oltre a Dio, cʼè un mucchio di gente fuori ansiosa di vederci uscire da quest’utero? È gente che ci vuol bene...
– Non è questo che non quadra. Tu ed io non siamo fratelli. La donna che gestisce questʼutero ci ha fornito un alloggio, ma lʼuomo e la donna che vi hanno depositato i loro semi si dice siano morti o, comunque, non si sa dove siano. E i signori nella cui casa andrò ad abitare, invece, li chiamerò «mamma» e «papà». Questa è la mia storia, e la tua non è granché diversa. Allora mi chiedo: chi ha veramente chiamato me e te a questa vita da poco iniziata? Siamo esclusi da quei progetti grandi?
– Hai sempre delle domande strane! Chi ti dice che è vero quel che hai sentito? Che esiste questo Dio che ci chiama, ci ama … Però, sai, a pensarci è proprio bella come cosa! È bello sapere di Qualcuno che amerà la tua vita indipendentemente da tutto. Che vuole vederti a tutti i costi. Ma … Ma dai, in fondo non è un problema nostro. Noi stiamo già bene, noi siamo stati scelti. Sai quanti ne hanno scartati? Noi siamo i prescelti.
– Già! Almeno non abbiamo condiviso il destino di coloro cui avevano diagnosticato la sindrome di Down. In Inghilterra, negli ultimi anni, non so quanti ne hanno uccisi, solo perché imperfetti. «Per ragioni sociali» dicevano!
– Quindi, uccideranno anche noi se scoprissero che abbiamo qualcosa di sbagliato?
– Quel che so è che hanno un potere enorme sulla nostra vita. E se la riterranno senza futuro, o prevedibilmente triste (magari per la presenza di difetti genetici) ci salveranno con i mezzi che hanno inventato: lʼaborto o, se passerà più tempo, lʼeutanasia infantile…
– Quindi siamo ancora in tempo per essere uccisi? In fondo, però, penso abbiano ragione. Lì fuori cʼè di tutto. Il surriscaldamento globale, poco lavoro, lʼipertensione, lʼobesità, il caro vita, la crisi, le accise, qualcuno dice anche poca libertà di espressione! Si capisce, no? È per il nostro bene! Il resto sono solo banalità. Cosa importa se esiste o meno questo Dio? A noi hanno promesso la felicità a prescindere. Noi avremo la felicità!”
– Forse non hai capito. Loro considerano esclusivamente le concrete possibilità che ha questa vita di essere felice. Valutano se è degna di essere vissuta, dopodiché si procede o si fa piazza pulita di tutto. Come il DDT per la malaria. E la malaria, in questo caso, siamo noi.
* * *

Talvolta ho timore della vulnerabilità di chi ci circonda. La donna che ci sta ospitando, per esempio...
– A volte la sento piangere.
– No, singhiozza proprio!
– Forse si è pentita di quel che ha fatto.
– Forse aveva bisogno di soldi.
– Dei suoi pensieri arriva solo una eco disturbata. Non so dire con certezza che cosa provi. Ma le sue sensazioni a volte vibrano correndomi sulla schiena.
– E forse le voci che sentiamo non vengono da fuori: è solo la sua coscienza.
– È la sua anima che parla. Mi dà i brividi.
– A volte sento qualcuno che ci accarezza, come da lontano. La mano appoggiata sul ventre che ci custodisce, però, non dà mai un calore sereno e speranzoso. È malinconia che cerca una consolazione senza destino.
– Io invece sento – e spesso – la parola «mamma».
– Sì. I suoi figli veri le domandano perché non ci potranno chiamare «fratelli». Già. Perché?
– Perché non lo siamo.
– E cosa siamo allora?
– È quello che provavo a spiegarti. Qui si sente del calore, quello che fuori chiamano «il calore di casa». Ma questa non è casa nostra. Non facciamo parte di una famiglia.
– Cʼè qualcosa di poco naturale in noi?
– Sì! È come se non facessimo parte di alcun progetto di Dio.
– E cosa siamo allora?
– Credo un esperimento. Ormai i corpi e la sessualità sono oggetto di biopolitica e noi tutti siamo nelle mani dei nuovi aristoi: i tecnoscienziati.
– Un esperimento? I tecnoscienziati?
– Per fare sia me che te hanno selezionato un seme maschile, lʼhanno crioconservato presso delle apposite banche e, con questo, hanno fecondato poi in vitro gli ovociti. Per ottenerli, una donna è stata imbottita di ormoni, subendo una iperstimolazione ovarica. La pratica è abbastanza pericolosa ma, talvolta, la donna che vi si sottopone viene retribuita. Più o meno la nostra vita vale quanto unʼutilitaria, sia pure, in qualche caso, di lusso.
– Un bombardamento, si potrebbe dire... come quello che subiscono le oche per fare il foie gras?
– Sì! Invece del foie gras si fanno bambini. Cioè noi.
Ed è a questo scopo che le femministe del nostro secolo si battono? Le femministe 2.0 vogliono sentirsi come le oche?
– La chiamano «autorealizzazione».
– Quindi noi siamo come i kulaki nei GULag! Il GULag in cui venivi spedito determinava la dignità morale, così la provetta in cui vieni inserito stabilisce quel che sarà della tua esistenza.
– Mi sento come svuotato! Siamo cavie da laboratorio.

* * *

 

– In questa grande casa senza regole che chiamano mondo, non sapremo facilmente da chi veramente veniamo. Potremmo anche incontrare consanguinei senza esserne consapevoli. Ma una vera «mamma»? Ce l’abbiamo veramente? E, in questo caso, chi è?
– Ci saranno un bel po’ di persone, credo, pronte persino a litigare per farci da mamma. Io mi chiedo invece chi sarà, per noi, «papà»?
– Eh, un padre! Ti preoccupi della figura paterna? Come stanno le cose potremmo ritrovarci ad avere due mamme... o due papà, naturalmente finti.
– Sempre, come mi hai fatto osservare, che ci permettano di nascere. Ma i test genetici su di noi li hanno terminati?
– E chi lo sa? Magari proprio adesso stanno osservando porzioni di nostri cromosomi per scoprire se sono «normali», o se cʼè un rischio genetico.
– Ammettendo che ci lascino in vita, dovrà essere una società di perfetti quella che ci attende?
– Più che di «perfetti», mi pare un mondo di perfetta infermità mentale.
– Perché?
– Ci si dispera per non riuscire a dominare tutto. L’ansia della perfezione è la misura dei disturbi psichici diffusi. La malattia e ciò che appare imperfetto destano orrore. È come se il mondo volesse liberarsi dei suoi limiti. Ma è il limite che dà alla realtà il suo profilo. Facendo così, lo stanno cancellando.
– Eppure, io ho sentito la storia di una certo Gregory Katz Bénichou, uno che insegna allʼEssec, uno studioso dal brillante curriculum. Se i suoi genitori gli avessero fatto il test genetico sull’embrione che era, non l’avrebbero autorizzato a nascere. Perché ha pessimi cromosomi, un patrimonio genetico inguardabile. Eppure oggi è un’illustre personalità. Dicono sia pure bello. Io, comunque, non riesco a smettere di pensare a quella storia della mamma e del papà. Dei fornitori di semi. Noi non assomiglieremo mai a nessuno! Chi potrà dirci: «Questo caratteraccio lo hai preso da tuo padre» o «Nel modo in cui sorridi cʼè tutta la mamma»? Chi nasconderà sotto i baffi l’orgoglio di quel che ha messo al mondo? Non ci sarà chi ci farà sentire come se gli appartenessimo. Quando balbetteremo, nessuno riuscirà a capire la lingua che vorremo parlare, perché nessuno sa da dove veniamo.
– La verità è che non abbiamo storia. Neanche una storia sanitaria.
– Insomma, hanno ridotto la vita a una poltiglia di cellule facilmente divisibili e manipolabili.
– Sì. È il mondo postmoderno. Un’utopia che ha ridisegnato tutto, sentimenti e rapporti umani compresi. In nome della libertà, hanno liquefatto doveri morali e sensi di colpa. Tutto è liquido nella società che ci aspetta.
– E la nostra individualità? Neanche quello è un valore?
– Mah! La biologia effettivamente predispone lʼunicità di ogni individuo, da un punto di vista sia fisico che mentale. Ma, fuori di qui, la stanno decomponendo, alla ricerca e in nome dell’uniformità.

– E da quando l’uniformità sarebbe un valore? Solo sacrificando la libertà la si ottiene.
– Esatto! Vedi, inizi a ragionare! Ultimamente è in voga lʼespressione «in
gruppo»: «Pensiero di gruppo», «lavoro di gruppo», «vita di gruppo»... Ci sono
i collettivi, ma non i rapporti personali.
– Suona proprio male. Unʼorganizzazione maniacale, degna delle dittature più spietate...
– Nellʼ«organizzazione», certo, tutto è strumento austero. Non può esserci troppa vitalità.
– Ma cosʼè? Lʼinferno?
– A me fa paura.
– A te? E a me, no? Temo la solitudine, la mancanza di legami imposta da chissà chi. Non sarai necessario, per nessuno. Tremo. Speriamo ci sia davvero quel Dio di cui parlavi.
– È certo che chi, fra gli uomini, dice di aspettarci in realtà si aspetta da noi qualcosa, sperando nella riuscita dell’esperimento. Il destino ci guarderà con indifferenza.
– Che fai pontifichi?
– No. È che non vorrei essere soltanto uno stupido desiderio. Anzi, forse noi non siamo nemmeno quello: i desideri sono cose delicate, segmenti di umiltà. I desideri veri si tormentano nel disagio, tremano di fronte alla bellezza della verità che ci si porta dentro. Non vogliono essere consumati con voracità. Il desiderio è il fascino di quel che amiamo. Ma noi non siamo un desiderio! Siamo lʼoggetto di una concupiscenza vile che coincide con il gusto del potere, con un contratto, con il vendere e comprare. E senza responsabilità.
– Dobbiamo sperare che al nostro arrivo non saranno subito sazi. Dobbiamo sperare che non avranno altro da cercare, e che saremo in grado di soddisfare le loro aspettative. Dobbiamo sperare che non ci riveleremo troppo diversi da chi ci sta comprando.
– Capisci che non vi sarà nessuno cui poterci affidare incondizionatamente? Nel silenzio in cui siamo ora mi piacerebbe percepire lʼeccezionalità di quei legami che fanno della famiglia una società quasi perfetta. Perché i legami artificiali che ci attendono sono un fatale incontro anonimo.

* * *

– Ehi!
– Dimmi.
– Lo creiamo noi un legame?
– In che senso?
– Se non abbiamo legami, facciamo un patto. Uno di quelli di sangue. Promettiamoci che quando ci faranno uscire di qui, ovunque andremo, divideremo sempre il dramma che ci accomuna. Promettiamoci che, a dispetto di tutti, noi avremo un legame vero.
– Io mi sento sin d’ora legato a te. Ma vorrei un legame di sangue vero.

Lorenza Formicola

 

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