21/04/2015

Fecondazione artificiale – Figli “sintetici”: figli di chi?

Dicevano gli antichi “mater semper certa, pater numquam”, la maternità è sempre certa, la paternità mai. Oggi, l’esame del DNA consente di avere la certezza della paternità, ma le follie prometeiche consentite dalla fecondazione artificiale a chi compra figli “sintetici”, spesso col placet della legge, pongono grossi punti interrogativi su chi sia la vera madre di chi (pensiamo alle madri biologiche, sociali, gestazionali, legali... un povero figlio può averne 3 o 4!)

Non solo. La legge ha perduto essa stessa la sua caratteristica essenziale di obbligatorietà, in quanto i giudici si sentono in diritto di applicarla o meno, in base alle loro personali idee e convinzioni.  

L’avvocato Tommaso Scandroglio, con la solita lucidità e competenza, illustra sulla Bussola Quotidiana una triste vicenda, segno dei tempi che viviamo.

Maria e Laura vanno a convivere nel 2006. L’anno seguente Maria con la fecondazione artificiale eterologa ha una coppia di gemelli. Poi le due donne lesbiche si lasciano nel 2014 e i gemelli ovviamente per legge vengono affidati a Maria, unico genitore esistente sia per la legge che per il buon senso.

Laura però vuole vederli e ricorre a un giudice palermitano che lunedì scorso, per la prima volta in Italia, le dà ragione, in nome «del superiore interesse dei minori». E così potrà stare con loro due week-end al mese e un giorno alla settimana. Si legge nel decreto: «Si tratta di garantire una tutela giuridica ad uno stato di fatto già esistente da anni, nel superiore interesse dei bambini, i quali hanno trascorso i primi anni della loro vita all’interno di un contesto familiare che vedeva insieme la madre biologica con la compagna, figura che essi percepiscono come riferimento affettivo primario al punto tale da rivolgersi a lei con il termine “mamma”».

Aggiunge Arianna Ferrito, avvocatessa di Laura, che in merito ai bambini «sono state entrambe a volerli e la madre biologica è stata appoggiata sia psicologicamente sia economicamente dalla mia assistita, che anche i figli chiamano mamma. Un neuropsichiatra infantile e una psicologa», continua la Ferrito, «hanno stabilito nella consulenza d’ufficio che tra di loro c’è un rapporto affettivo di natura “familiare”, che la mia assistita rivestiva “il ruolo di seconda madre” e che quindi dividerla dai bambini avrebbe pregiudicato il loro sviluppo. Il pm ha fatto propria la richiesta nell’interesse dei minori e i giudici l’hanno accolta garantendo il diritto di visita».

Quale è la morale (laica) di questa vicenda? In primo luogo i giudici ormai vedono le leggi non come strumenti bensì come ostacoli da superare. E dunque si inventano soluzioni in tutto e per tutto illegali per risolvere vertenze secondo lo spirito dei tempi. Le persone colte direbbero che la funzione nomofilattica riceve continuamente un vulnus dalla giurisprudenza. Perché la decisione dei giudici fa acqua da tutte le parti? Semplicemente perché la signora Laura non è genitore dei gemelli. Non li ha partoriti né li ha adottati.

Nel caso di separazione di conviventi, dove uno è un uomo e l’altra una donna e in cui ci sono dei figli, in genere la coppia presenta un ricorso congiunto per regolare l’affido. Entrambi hanno il diritto di stare con i figli perché entrambi, seppur non sposati, sono genitori. Ma nel caso di Maria & Laura quest’ultima per la legge non è nessuno, non ricopre alcun ruolo giuridicamente significativo. E non deve ricoprirlo. Su questa linea si era mossa una recente pronuncia del Tribunale dei Minori di Milano il quale aveva respinto la richiesta di affidamento congiunto da parte di una ex compagna lesbica, seppur anche in quel caso i periti avevano individuato nelle coppia «uno schema tipicamente familiare».

I giudici palermitani hanno applicato invece il Codice di diritto gender dove la famiglia non è quella giuridica ex art 29 della Costituzione formata da un uomo e una donna, ma quella di fatto, inesistente nelle leggi ma assai presente nelle menti votate alle dottrine gaie. Una “famiglia” dove “affetti”, pannolini cambiati e medicine date ai pupi fa “famiglia”: che le tate licenziate da casa chiedano anche loro l’affido dei pargoli. Dove esiste la madre biologica e quella “sociale” (sic), la prima mamma in comando e la seconda di riserva. Dove se un bambino chiama “mamma” chi non è sua mamma, tanto basta per considerarla genitore a tutti gli effetti: tremino i genitori se il loro piccolo un dì chiamerà “mamma” la baby sitter. E dato che i bambini credono ai personaggi di fantasia, il prossimo affido potrebbe riguardare le fate.

Mater semper certa est recitava un brocardo latino. Mica vero. Ora per avere qualche certezza bisogna chiedere a psichiatri e giudici, prestigiatori che tirano fuori dal cilindro nuove famiglie e nuovi tipi di genitori. Nessun stupore poi che gli psichiatri qualifichino la convivenza omosessuale come “famiglia”: il dato non è scientifico ma comunque assodato nella sua ideologia. L’affido lesbo è comunque un altro tassello che va a comporre – contra legem – l’immagine della “famiglia” omosessuale di fatto che prelude al “matrimonio” omosessuale disciplinato dalla legge. La solita strategia: prima riconosciamo singoli diritti alle persone omosessuali e poi li mettiamo insieme sotto l’etichetta “matrimonio” tra persone dello stesso sesso.

Bludental

Quello che però stupisce ancora di tutta questa operazione sta nel fatto che l’affido è stato deciso “per il supremo interesse dei figli”, nonostante montagne di studi attestino in modo inoppugnabile che il bambino per crescere sano deve avere un padre e una madre e che le convivenze omosessuali per i pargoli sono come veleno dato insieme al latte nel biberon. Qui il supremo interesse cercato dai giudici è quello dei gay, non certo quello dei bambini.

Tommaso Scandroglio

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