26/02/2015

Aborto più facile in Francia: l’embrione è un intruso

Leone Grotti, su Tempi.it, ci aggiorna sull’evoluzione (anzi, involuzione) della mentalità francese pro aborto.

Già la legge Veil è estremamente permissiva. Ma oggi si propone di rendere ancora più semplice e veloce l’aborto: in fin dei conti si tratta di eliminare un “intruso” (il bambino).

«Lasciare una donna che vuole abortire con il suo embrione dentro il ventre è una tortura, quindi bisogna abolire l’obiezione di coscienza e l’obbligo di attendere sette giorni tra il colloquio con un medico e l’altro per ottenere l’aborto», secondo la delegazione all’Assemblea nazionale per i diritti delle donne (Ddf).

Già da tempo in Francia le donne possono abortire semplicemente perché lo desiderano e non solo nel caso in cui dichiarino di trovarsi «in una situazione di sofferenza a causa del loro stato». Così, secondo i socialisti, l’aborto è finalmente stato trasformato «in un diritto fondamentale».

Ma l’esercizio di questo diritto deve essere il più rapido possibile (per evitare ripensamenti, ovviamente) . Tempi riporta la dichiarazione della deputata socialista Catherine Coutelle:

«È una questione di principio e di comodità. Una donna che si presenta in clinica per abortire ci ha già riflettuto a lungo. Non bisogna obbligarla ad attendere ancora di più e si devono espungere dalla legge Veil quei mezzi che impediscono all’aborto di diventare un diritto fondamentale, senza riserve né restrizioni».

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Per la ginecologa in capo della clinica di Lilas, Marie-Laure Brival, «la donna è adulta, autonoma e responsabile. Nessuno deve imporle un periodo in più “buono” [per riflettere]».
Il pensiero che sta dietro a queste proposte è ben descritto dalle parole riportate dal Le Figaro di Joséphine, 27 anni: «Lasciare una donna che vuole abortire con il suo embrione dentro il ventre [per sette giorni in più] è una tortura; è difficile da vivere psicologicamente. Tu sai che non vuoi tenerlo ma che quello si sviluppa dentro di te. È come un intruso con il quale sei costretta a vivere. Ed è un diritto dire: “Toglietemelo!”».

La co-presidentessa di Planning Familial, Véronique Seiher, concorda: «Si vuole solo colpevolizzare la donna. Si domanda forse alle donne che vogliono bambini se ci hanno pensato bene? No! Questo non fa che stigmatizzare la donna che abortisce. Nella maggior parte dei casi, abortire è un sollievo». Conferma Manon, 27 anni, che ha dovuto «aspettare tre settimane» prima di abortire: «Ho dovuto viverci insieme per settimane, come se fosse una punizione».
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Leggere che delle donne hanno potuto dire e sottoscrivere frasi del genere non può lasciarci indifferenti. Questa è la riprova che la cultura della morte si è impossessata dell’anima e della mente umana. Per questo non possiamo cedere alla tentazione di lasciarci andare al disfattismo e dobbiamo – possiamo – reagire proponendo e diffondendo la cultura della vita, che è bellezza,  amore, pace.

Redazione

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