12/05/2014

La responsabilità dei medici e la Ru486

Riflessioni interessanti e documentate sulla RU486 e le morti che ne derivano, pubblicate da Alberto Cavicchi sul sito  www.estense.com

Quando ci riferiamo alla pillola Ru486 intendiamo parlare di una procedura abortiva che è stata recentemente all’origine della morte di una trentaseienne torinese, deceduta dopo aver utilizzato, appunto, questo farmaco. Al fine di fare chiarezza sulle conseguenze che ha l’assunzione della Ru486 sulle donne proponiamo di esaminarne l’effettiva pericolosità. Partiamo, quindi, col mettere in discussione ciò che hanno scritto due famosi ginecologi, Carlo Flamigni e Corrado Melega, i quali continuano imperterriti a sostenere che l’attacco a questo farmaco è solo un rozzo tentativo di diffamazione. Anzi, secondo i due medici la morte della giovane torinese non può mettere in discussione la sicurezza di una metodologia sanitaria che – come loro ironicamente sostengono – solo le “pagine scientifiche di Topolino” possono mettere in discussione. Già nel 2010 Flamigni e Melega avevano pubblicato un manuale d’uso, compilato dopo aver consultato – a loro dire – una mole enorme di studi scientifici internazionali.

Non soddisfatti delle loro tesi, abbiamo deciso di consultare il New England Journal of Medicine (la più importante rivista medica mondiale), del dicembre 2005, che dedicò l’apertura e un articolo interno all’aborto farmacologico; testi questi che misero in discussione (con innegabile documentazione) la presunta sicurezza di queste pratiche abortive. Nell’editoriale della rivista, Michael Greene, docente alla Harvard Medical School, sostenne che la percentuale delle morti per aborto causate dal metodo chimico (Ru486) era (ed è) dieci volte superiore a quella riscontrata (nello stesso periodo di gravidanza: fino alla settima settimana) per le pratiche dell’aborto chirurgico. L’articolo interno alla rivista, firmato da Marc Fischer, pose invece l’attenzione alla vicenda di quattro giovani donne californiane, morte nel 2005 per infezione da batterio Clostridium sordellii, a seguito di aborti chimici. Oggi sappiamo per certo che quell’alta e inspiegabile quantità di morti si giustifica con il fatto che in California, dopo la morte dell’adolescente Holly Patterson nel 2003, altri genitori e parenti vollero indagare meglio su quei decessi, giungendo alla conclusione che le morti delle giovani californiane erano da imputare, senza tema d’errore, all’utilizzo della pillola Ru486.

Una verità semplice e documentata che però è stata negata dall’omertà e dagli spregiudicati interessi di alcune lobbies. Lo testimonia il comportamento del marito di una delle giovani californiane morte il quale, nonostante il parere negativo dei giudici e dei medici, ha preteso che sul corpo della consorte fosse effettuata, privatamente, l’autopsia; operazione dalla quale emerse che il decesso era la conseguenza dell’assunzione della Ru486. Un altro caso emblematico è quello di Didier Sicard, ex presidente del Comitato di bioetica francese, il quale intervenendo a un congresso sulla sicurezza della Ru486, parlò della morte di una delle sue tre figlie: Oriane. La giovane donna (trasferitasi con il marito in California), incinta del terzo figlio, morì in modo fulmineo dopo aver assunto la Ru486. Causa del decesso: anche in questo caso è da addebitare a un’infezione provocata dal Clostridium sordellii. Dopo questa drammatica perdita, Sicard pubblicò sugli Annals of Pharmacotherapy e sul New England Journal of Medicine, un saggio contro l’aborto chimico, allo scopo di sollecitare, almeno, la prescrizione obbligatoria di antibiotici per le donne che intendano assumere la Ru486.

Lo slogan adottato dai medici favorevoli all’aborto chimico sostiene, senza scrupolo alcuno, che la pratica da loro attuata é “facile e amica delle donne”. Invece non lo è affatto e, anzi, uccide – a parità di tempi di gestazione – dieci volte più dell’aborto chirurgico. L’evidenza scientifica è tanto più drammatica se si pensa che il rischio di morte aumenta con l’avanzare del tempo di gestazione. Dunque, la Ru486 è una soluzione solo per coloro che non si preoccupano dei rischi mortali che corrono le donne che l’assumono e sono invece propensi ad avviare le interessate all’aborto chimico, da effettuare il più rapidamente possibile. Il loro cinismo cozza però con i dati accertati: finora le morti causate dall’assunzione della Ru486 sono state 27, alle quali vanno sommate le 12 donne che sono decedute dopo aver fatto uso dello stesso principio attivo della Ru486 (il Mefepristone), per fini differenti (come coadiuvante nella terapia contro la sindrome di Cushing).

Non deve, quindi, stupirci che gli estimatori della Ru486 abbiano subito un tracollo nervoso dopo aver appreso della morte della giovane donna torinese che, come è stato sostenuto dai medici che l’avevano in cura, era sana e già madre di un bambino. La donna era convinta che, dopo l’assunzione della seconda pillola abortiva, avrebbe potuto ritornare alla sua quotidianità. Invece, non è stato così: dopo l’assunzione della Prostaglandine, al fine di espellere il feto abortito, ha avuto due arresti cardiaci, il secondo dei quali, fatale.

C’è qualcuno che, fuori dalle solite banalità, si assume la responsabilità delle conseguenze che possono derivare alle donne dall’assunzione, frettolosa e sbrigativa, della Ru486?

Alberto Cavicchi  – http://www.estense.com/?p=383046

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