25/05/2015

Parto in anonimato, diritto di conoscersi e di ri-conoscersi

Il “parto in anonimato” è un istituto giuridico volto a salvare vite umane: quella del bambino dall’aborto o dall’infanticidio, quella della madre dalle conseguenze psicologiche devastanti della sindrome post abortiva.

Ora si parla di modificare la legge del 1984 che l’ha istituito. La Morresi su Avvenire ci spiega in che senso.

​Il diritto di una madre a ripensarci, e di suo figlio a conoscerla; il diritto di una madre e di suo figlio a ritrovarsi, perché lo vogliono: è questa la posta in gioco i prossimi giorni in Parlamento, dove si discuterà sulla legge resa necessaria dalla Consulta, quando due anni fa ha dichiarato incostituzionale la norma secondo cui deve restare immutabile, per sempre, la richiesta di una madre, al momento del parto, di non farsi mai conoscere dal figlio.

La legge sull’adozione del 1984, infatti, prevede che, se al momento del parto una donna dichiara di non voler essere nominata nel certificato di nascita di suo figlio, rinunciando a tenerlo con sé e rendendolo adottabile da altri, quella maternità deve essere cancellata per cent’anni, e cioè fino a quando lei stessa e suo figlio saranno morti.

In questo modo le persone adottate si dividono in due categorie: quelle non partorite con questa procedura, che a 25 anni (e in certi casi a 18) possono conoscere il nome dei propri genitori naturali, e quelle invece nate da una madre che vuole restare sconosciuta, a cui questa conoscenza è negata in pratica per sempre.

Si tratta della normativa nota come “parto in anonimato”, lontana figlia della “ruota degli esposti” e delle sue tante varianti che nel tempo si sono succedute. Forme differenti per consentire a una donna la stessa cosa: portare a termine una gravidanza non voluta, evitando aborti clandestini o infanticidi, mettendola in condizione di lasciare il suo neonato, restando sconosciuta, a qualcuno che se ne prenderà sicuramente cura.

Erano abbandoni programmati e in relativa sicurezza, per madre e figlio, in tempi in cui un bambino fuori dal matrimonio significava la condanna morale di una ragazza, la sua emarginazione dalla società e non raramente l’allontanamento dalla famiglia di origine, e che spesso si risolveva nell’impossibilità di condurre una vita normale, quando le donne dipendevano economicamente dai mariti: difficile trovare qualcuno disposto a sposare e mantenere una donna con un “figlio della colpa”, automaticamente il figlio di una poco di buono (e usiamo un eufemismo). Così come era difficile accettare il figlio dell’adulterio.

L’abbandono significava anche una possibilità in più per quel bambino, non solo per la chance di nascere che gli era data, ma anche per l’opportunità di crescere in una famiglia regolare, quella che lo avrebbe adottato, anziché nelle pesanti difficoltà che avrebbe sicuramente incontrato la sua “ragazza madre”. E spesso erano istituti religiosi a farsi carico della mediazione fra le donne che lasciavano loro il neonato che non potevano tenere con sé, e le famiglie che lo avrebbero cresciuto. Nella speranza di un futuro migliore per tutti.

Abbandoni costretti da drammatiche circostanze della vita, e non sempre le madri volevano essere dimenticate, o restare irrimediabilmente sconosciute: spesso c’erano biglietti, lettere, oggetti lasciati insieme al neonato, segni di riconoscimento più o meno espliciti con cui madre e figlio, in tempi migliori, si sarebbero potuti cercare e incontrare.

La legge del 1984, conservando per sempre il segreto della madre nei confronti del figlio, voleva tutelare entrambi: la prima, consentendole di poter continuare la propria esistenza che, per tanti motivi, non poteva condividere con quel bambino. Il secondo perché nascesse al sicuro di una struttura sanitaria e iniziasse subito un veloce percorso di adozione.

I tempi però sono cambiati. C’è il Dna, con cui è possibile individuare con sicurezza padre e madre e relativa rete parentale: un’analisi sempre più facile da eseguire, che probabilmente sarà nelle cartelle cliniche di tutti noi nei prossimi anni. Ad esempio già ora in rete si possono trovare, alla modica cifra di 99 euro, prodotti come il “Family finder test”, che offrono l’analisi del Dna insieme all’accesso a banche dati per ricostruire il proprio albero genealogico e rintracciare eventuali parenti in giro per il mondo. D’altronde le indagini genetiche sono sempre più diffuse e richieste per motivi sanitari e, al tempo stesso, si parla di medicina personalizzata e tracciabilità di campioni biologici e dati. Difficile nascondersi in un mondo così connesso e globalizzato.

Ma soprattutto adesso avere avuto un bambino fuori da un matrimonio non è più uno stigma sociale: la condanna è caduta, e anche lo Stato riconosce in diversi servizi alcune priorità a una donna sola che cresce suo figlio. E poi ora sono accettate socialmente e diffuse le cosiddette “famiglie allargate”, di tutti i tipi, dove si cerca di includere nei nuovi nuclei familiari anche i figli avuti da relazioni precedenti. Perché adesso che tutto è possibile, e rivendicato come un diritto, si dovrebbe rendere quasi impossibile ristabilire una relazione fra una madre e un figlio che lo vogliono? E ancora: se bastano sei mesi per cambiare idea e divorziare, per quale motivo dopo un quarto di secolo una madre non potrebbe cambiare idea e voler vedere il figlio a cui ha rinunciato, tanti anni prima? Perché si dovrebbe rendere difficile una riconciliazione? E perché a una persona che lo chiede si dovrebbe negare l’opportunità di conoscere colei che, nonostante circostanze drammatiche, ha comunque deciso di metterlo al mondo, permettendogli di esistere?

Qualcuno teme che la sola possibilità di essere rintracciate, in futuro, possa spingere le donne in difficoltà a scegliere di abortire, anziché di portare a termine la gravidanza per poi dare il figlio in adozione. Ma una buona norma può fugare questo dubbio: una nuova legge sicuramente deve consentire allo Stato di mantenere l’impegno preso, se la madre vuole restare anonima (e la proposta presentata in Parlamento è in questo senso). BludentalNon si deve togliere niente alla tutela che adesso hanno queste donne, ma si tratta di aggiungere una possibilità in più: quella di ripensarci. Perché negarla? Certamente serve una buona legge che garantisca la riservatezza assoluta delle richieste e dei contatti, che devono riguardare esclusivamente le due persone in questione, la madre e il figlio oramai adulto, e nessun altro, con pesanti sanzioni per chi rendesse tutto pubblico. Un ente terzo – come ad esempio il tribunale dei minori insieme ai servizi sociali – dovrebbe accompagnare la richiesta di una delle due parti di conoscere l’altra, consentendo l’incontro solo dopo aver accertato rigorosamente l’effettiva volontà di entrambi, nella consapevolezza che il fatto non comporta alcun obbligo giuridico reciproco.

E a chi pensa che anche solo essere contattata, per quella madre, significhi perdere privacy e tranquillità, domandiamo: siamo sicuri che la richiesta di essere incontrata dal figlio a cui si è rinunciato tanti anni prima, non potrebbe significare una possibilità di riconciliazione con un passato doloroso, l’opportunità di recuperare quella maternità incompiuta, insomma, un modo per – diciamolo – perdonarsi, e magari fugare i dubbi sepolti nel silenzio di tanti anni, verificando che a quel tempo è stata proprio la scelta più giusta?

Assuntina Morresi

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