21/05/2018

Aborto, bugie e “fake news”: ancora una smentita

Sul Quotidiano Sanità si è accesa una querelle tra gli abortisti e il buon senso, la ragione e la verità scientifica, incaranta in questo caso dal prof. Giuseppe Noia, Direttore Hospice Perinatale – Centro per le Cure Palliative Prenatali Policlinico Gemelli – Roma e 
Presidente AIGOC (Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici).

La questione è cominciata con un articolo dei radicali che accusavano noi e i provita di propalare fake news sull’aborto. Noia gli ha risposto (ne abbiamo dato contezza qui).

I radicali hanno replicato nuovamente (qui) e Noia ha risposto di nuovo così.

Aborto. Manipolare il pensiero degli altri è un boomerang

18 maggio

Gentile Direttore,
manipolare il pensiero degli altri è sempre un’operazione menzognera e alla lunga diventa un boomerang: si ritorce sulla credibilità umana, scientifica e sociale di chi afferma cose non vere. Le colleghe ginecologhe, Pompili e Parachini, nella lettera del 7 maggio, scrivono diverse considerazioni che non rispondono alla verità e vorrei rispondere dettagliatamente su 5 punti.

Prima considerazione: un invito alla completezza dell’informazione sull’aborto

Secondo la loro interpretazione io avrei asserito che gli operatori dei servizi di IVG parlano alle donne in maniera generica delle possibili (io dico delle reali) complicazioni fisiche e psichiche connesse con la procedura e scrivono “negando che l’aborto può provocare il decesso della donna”. Ma dove è scritta questa frase riportata tra virgolette? La frase non c’è, c’è invece: “Ora, visto che anche il Ministero della Salute ammette che l’aborto può provocare il decesso della donna, sarebbe opportuno che questa informazione non sia negata alla donna che chiede di abortire”. Il pensiero, equivale, quindi, a un invito alla completezza dell’informazione, non a un giudizio sull’operato degli operatori. Negli anni ho incontrato molte volte operatori del servizio IVG e ci siamo sempre pacatamente confrontati con scambio di esperienze sulle consulenze fatte alle persone che chiedono interruzioni volontarie. Loro mi hanno condiviso le loro esperienze e io le mie, in maniera pacata e rispettosa, piena di sincera ricerca di risposte scientifiche, umane e assistenziali nel confronto con le donne. Ho raccolto però anche tante confessioni personali sul mondo dell’abortività volontaria e non c’è mai stato un atteggiamento di giudizio sui colleghi e sulle donne anzi, alla fine degli incontri, qualcuno mi ha voluto anche abbracciare. Questo per dire del rispetto che ho per tutti i miei colleghi.

Seconda considerazione: le donne muoiono di aborto

Sulla mortalità legata all’aborto volontario nel mondo, inviterei le colleghe Pompili e Parachini a leggere tutti i dati riportati dal World Abortion Policies delle Nazioni Unite del 2011 dove l’equazione Paese in via di sviluppo uguale maggiore mortalità materna da aborto clandestino non è automatica perché un fattore importante, quando non c’è la restrizione, è legato alla cultura del Paese che considera l’aborto volontario come mezzo di contraccezione delle nascite e lo facilita. Lo studio del Guttmacher Institute, a mio parere, non è superpartes perché è una delle agenzie mondiali che si propone come promotrice dell’aborto volontario.

Terza considerazione: il diritto all’obiezione di coscienza e lo pseudo diritto all’aborto

Un’altra affermazione molto grave, non vera e legata alla interpretazione delle colleghe, è quella relativa al fatto che: “Il diritto di sollevare l’obiezione di coscienza venga confuso con l’autorizzazione a ostacolare l’esercizio di un altro diritto”. È un’affermazione grave, gratuita e manipolatoria verso gli obiettori di coscienza. L’ obiezione è sancita dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo di Helsinki, dalla Costituzione Italiana e dalla stessa Legge 194. L’aumento degli obiettori negli ultimi 30 anni (è arrivato a punte del 70%) in un Paese dove i cattolici praticanti sono il 20%, dimostra chiaramente che la scelta non è solo di pertinenza religiosa. Sicuramente c’è una quota parte che lo fa per un comodo personale ma nella maggioranza dei casi è l’evidenza delle conoscenze scientifiche e delle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto volontario nella vita delle donne che ha portato molti operatori sanitari a fare l’obiezione di coscienza. Dinanzi a più di 8000 casi di diagnosi di malformazioni, in 30 anni di esperienza, non abbiamo mai (e sottolineo mai) ostacolato la libertà di scelta delle coppie: anzi, il clima di grande rispetto verso le decisioni sofferte delle coppie, ha fatto sì che il 70% di esse ritornasse da noi successivamente sia nel chiederci aiuto per un sostegno psicologico dopo l’interruzione, sia per affidarsi a noi in successive gravidanze. Il 60% di queste coppie ha scelto di continuare la gravidanza anche quando vi erano problematiche fetali. Allora mi viene da fare una domanda: “Vogliamo togliere la pari opportunità di scegliere e di autodeterminarsi a continuare la gravidanza? Vogliamo lanciare un messaggio che ci si può autodeterminare solo nel senso della interruzione e non della continuazione? Io non credo che possiamo espropriare le donne all’informazione scientificamente corretta e alla scelta consapevole che esse possono fare”.

Quarta considerazione: il post aborto spontaneo e il post aborto volontario

equiparare il vissuto psicologico e fisico delle donne che scelgono l’interruzione volontaria di gravidanza con quello delle donne che accolgono la gravidanza e vanno incontro ad aborti spontanei ripetuti, non è la stessa cosa, è vero! Le prime scelgono, le seconde subiscono l’evento patologico e, che sia un evento drammatico e patologico, lo pensiamo tutti e lo ha pensato anche la legge 194 quando, all’articolo 5 e 6 afferma di proporre un’alternativa all’interruzione volontaria di gravidanza. Tuttavia, c’è un dato oggettivo che le accomuna: entrambe perdono il figlio! Non c’è bisogno di essere grandi esperti per questa trasparente evidenza esistenziale. Ognuno di noi è stato embrione, feto, neonato, infante, adolescente, adulto. Ognuno di noi è stato ed è persona umana, il nostro personale stato ontologico non dipende dai giorni, dai mesi, dagli anni, dal colore della pelle, dall’avere o no un handicap perché ogni persona umana è preziosa. Questa elementare affermazione è intrinsecamente legata a un’altra, altrettanto e ineludibilmente evidente: ognuno di noi è un figlio e quando una madre perde un figlio soffre. “Professore, a chi lo devo dire che avendo avuto un aborto al secondo mese, io soffro come se avessi perso una persona adulta?”. E’ la domanda che decine di donne mi hanno rivolto negli anni dopo uno o più aborti spontanei.

Quinta considerazione: la mentalità abortista discrimina le donne che hanno voluto un aborto

Non ho mai affermato che l’autonomia decisionale delle donne sia una patologia: piuttosto affermare che l’autonomia decisionale possa differenziare le donne che hanno aborti spontanei da quelle che scelgono l’interruzione volontaria, in termini di conseguenze fisiche e psichiche, oltre che essere un falso scientifico e umano, secondo la mia opinione, rappresenta una discriminazione: infatti le donne che sceglierebbero l’interruzione volontaria di gravidanza sarebbero in qualche modo tutelate dal fatto di scegliere e non avrebbero, secondo questa ipotesi, complicazioni di grave entità sulla salute fisica e psichica mentre le donne con aborto spontaneo ripetuto, avendo una patologia ricorrente, sarebbero più fragili sul piano fisico e più povere sul piano psicologico.
Sappiamo invece che una scelta, per quanto consapevole e sicura, come tutte le scelte umane, quando implica la separazione dal figlio non è mai una separazione di poco conto; non esistono donne senza problemi dopo scelte consapevoli di una interruzione di gravidanza, non esistono donne con aborti ripetuti spontanei senza problematiche perché ogni donna che perde il figlio soffre in funzione di variabili interne ed esterne in qualunque modo avvenga la separazione dal figlio. Infatti, la scelta consapevole dell’interruzione di un feto gravemente malformato non protegge né le donne né i loro partner maschili da conseguenze psicologiche (che ci sono comunque!).
Il lavoro di Heidi Cope et al del 2015 su una rivista laicissima come Prenatal Diagnosis (“Pregnancy continuation and organizational activity following of prenatal diagnosis of a lethal defect are associated with improved psycological outcome” – Prenatal Diagnosis 2015, 35; 761-768) dimostra chiaramente che, in 158 donne e 109 uomini che hanno perso la gravidanza con un figlio anencefalico, la disperazione (P=0,02), l’evitamento (P=0,008) e la depressione (P=0,04) sono maggiori, in maniera statisticamente significativa, in chi abortisce rispetto a chi continua la gravidanza. Le persone sono state studiate con 3 metodologie altamente qualificate: Perinatal Grief Scale, Impact of Event Scale, Revised and Back Depression Inventory – II.

Questo dato è molto importante:
a. perché dimostra che la sofferenza psicologica c’è comunque, anche quando si abortisce un feto malformato (che dovrebbe teoricamente lenire la scelta); essa è indipendente dalle dimensioni (grammi o centimetri) o dalla condizione di malformazione ma è legata alla perdita della presenza del figlio;
b. è importante perché la fonte scientifica è laica (Prenatal Diagnosis è una delle più famose riviste scientifiche mondiali);
c. perché risponde al concetto che non si può eliminare la sofferenza eliminando il sofferente: nessuna interruzione volontaria può essere una terapia.

Le donne che hanno perso gli embrioni congelati dopo un guasto del sistema di refrigerazione al San Filippo Neri di Roma hanno scritto e pubblicato su giornali, alcuni anni fa: “Abbiamo perso i nostri figli”.

Ognuno di noi ha iniziato la propria vita relazionale in un unico zigote monocellulare

È stato chiesto al Prof. Jan Wilmut (il padre della pecora Dolly con la clonazione): “Quando ha iniziato Dolly ad essere Dolly? E quando ha iniziato l’uomo ad essere uomo?”. E lui, come il Prof. Marshall Johnson (Università di Philadelphia) Tvn Persaud (Università di Manitoba), Joe Leigh Simpson (Università di Houston), Gerald C. Goeringer (Università di Georgetown), Keith L. Moore (Università di Toronto), ha risposto: ”Ognuno di noi ha iniziato la propria vita relazionale in un unico zigote monocellulare”.
Helen Pearson (Nature – “Your destiny from day one” – Vol. 418 – 4/7/2002 – “Il tuo destino dal giorno uno”) afferma che nei minuti e ore dopo la fusione dello spermatozoo con l’ovocita, si stabilisce il luogo dove si formerà la testa e i piedi, il lato del dorso e dell’addome e alla prima divisione cellulare l’embrione dimostra una vera e propria organizzazione interna (Gardner RL, 2001 – Development 128, 839- 845).

Per finire, il British Medical Journal, nell’editoriale del 2000, scrive: “L’embrione è un attivo orchestratore del suo impianto e del suo destino”. Infatti la Prof.ssa Bianchi di Betesda ha dimostrato che l’embrione invia cellule staminali guaritrici verso la madre e dalla relazione prima e dopo l’impianto, dipendono conseguenze di patologie nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta.
Vorrei quindi chiedere alle due colleghe: “Dove sono le affermazioni di fede?” Tutte queste considerazioni sono evidenze scientifiche e umane ed esprimono la realtà biologica che la scienza ha sancito da 50 anni. Sin da subito tutto è relazione tra il figlio e la madre e se questa relazione esiste (ed esiste veramente!), tutto ciò che separa questa vita simbiotica fra i due, ha innegabili conseguenze. Le argomentazioni di fede in tutto questo non ci sono. Probabilmente chi cerca di liquidare queste evidenze scientifiche e cliniche crede di ghettizzare culturalmente la forza della verità sulla persona umana perché capisce che la potenza della relazione madre-figlio è indubitabile. Bisogna scusarsi se non si dicono cose vere perché le manipolazioni del pensiero altrui sono sempre un po’ misere come le fake news e non è strillando sui decibel dei media che si lavora per una corretta informazione ma con la forza della evidenza si grida alla gente la verità della ragione e dell’umanità.

Giuseppe Noia

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