06/01/2017

Aborto: il martirio del cuore e delle idee

A proposito di tutte le piccole vite umane innocenti che vengono sacrificate con l’aborto ed in provetta, ci sono vari aspetti su cui riflettere.
Uno riguarda i ginecologi tormentati nella coscienza. Certe storie sono molto significative e vanno divulgate.

Nel 2002, in uno dei corsi di bioetica che ho frequentato a Roma, c’era tra i docenti il dott. Orazio Piccinni, un pioniere pugliese delle tecniche di fecondazione artificiale, successivamente “pentito” e appassionato difensore del Magistero. Anche lui era un ginecologo abituato a scartare gli embrioni per impiantare solo i “golden embryo”: poi un giorno si trovò ad impiantare l’unico embrione (brutto) che aveva a disposizione il quale, nascendo bello, lo mandò in crisi aprendo una profonda breccia nella sua coscienza.

Lui parla di una “conversione al microscopio”: trovò il coraggio di abbandonare la carriera e quel grande business, ma ritrovò il rapporto con la fede e con la famiglia. Della sua storia ne parlarono, ai tempi del referendum sulla legge 40, sia Tempi che Il Foglio. Credo che sia il momento di ritirare fuori certe testimonianze dal mondo dei ginecologi, per farle conoscere.

Dopo una lunga esperienza professionale, vorrei dare anch’io una piccola testimonianza su questo aspetto specifico: il tormento dei ginecologi. Ho passato tutta la vita accanto a loro dentro i reparti di ostetricia, negli ospedali di varie città. Quando arrivò la legge 194 sull’aborto, diversi ginecologi inizialmente aderirono all’applicazione della legge, «voluta dal popolo»: ubriacati dall’ideologia del 1968, non si sentivano personalmente responsabili di tutto quel sangue innocente. Con il tempo però alcuni di loro, chi prima e chi dopo, sono entrati in crisi e alla fine hanno preferito cambiare strada: qualcuno l’ho visto cambiare ospedale, qualcun altro cambiare specializzazione.

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Il sangue caldo che cola sui guanti di lattice – racconta chi l’ha provato – è qualcosa che ustiona l’anima oltre che la pelle. Chi invece ha continuato a fare l’aborto, l’ho visto farlo sempre più malvolentieri. Tanto che, nella preparazione degli orari di turno, quando facevano il calendario mensile, ognuno cercava il modo di evitare le mattine dedicate all’aborto. Esattamente lo stato d’animo opposto che provavamo all’uscita dalla sala parto, con il “bimbo in braccio” a condividere la gioia delle famiglie.

In certe circostanze ho sentito il dovere morale e professionale di scontrarmi (talvolta in modo molto forte) con i ginecologi pro aborto, anche se erano i miei primari. Quando li rimproveravo energicamente, richiamandoli alle loro gravissime responsabilità, sentivo che gli toccavo la coscienza e che gli facevo del bene. Mi davano ragione, ma mancava loro il coraggio di disobbedire alle “alte protezioni” che avevano alle spalle. Capivo la loro debolezza, perché quel coraggio può venire soltanto dalla forza della fede.

A quasi quarant’anni di distanza, devo dire con stupore che ho incontrato lungo i decenni molta più stima professionale (e personale) proprio da parte di quei ginecologi con cui mi ero scontrata apertamente in reparto sull’aborto, piuttosto che da parte di quelli cattolici che avrebbero dovuto sostenermi ma preferivano il dialogo tiepido e conciliante.
Tutta questa riflessione io la riassumo nel concetto di “martirio del cuore e delle idee”, cioè bisogna imparare a rinunciare a carriera, indice di gradimento e amicizie (a volte le più care) se si vuol rimanere fedeli alla verità tutta intera. Dolorosamente, ma in letizia francescana.

Flora Gualdani

Fonte: Notizie ProVitanovembre 2014, p. 9.

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