26/03/2018

Aborto: la legge 194 quarant’anni dopo

Quando nel 1978 fu promulgata la Legge 194 sull’aborto (o “interruzione volontaria di gravidanza”, come vuole la neolingua) si sostenne da parte dei promotori che essa avrebbe combattuto la piaga degli aborti clandestini. Si denunciò contestualmente l’ipocrisia di chi non voleva ammettere alla luce del sole ciò che era praticato di nascosto all’ombra di mammane e loschi figuri lucranti sulla pelle delle donne.

Pertanto, la Legge affermò «il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, insieme con il riconoscimento del valore sociale della maternità» (art. 1). La società – si disse – non doveva lasciare più sole le donne. La maternità doveva essere riconosciuta come d’interesse dell’intera società.

In ottemperanza a queste premesse si ammise l’interruzione della gravidanza nei primi 90 giorni per la donna «che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» (art. 4) e la possibilità di interruzione oltre i 90 giorni: «quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro etc.» (art. 7).

Nella stesura del testo di legge l’altro fondamentale motivo che aveva animato la campagna abortista, la libertà di scelta della donna, ossia la sua autodeterminazione (si pensi allo slogan femminista: «Io sono mia!»), restò come sullo sfondo. La finalità ultima affermata fu, infatti, la tutela della vita umana dal suo inizio, e questo quasi a comporre insieme la garanzia del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e il riconoscimento del valore sociale della maternità.

Tuttavia restava nel vago cosa si intendesse per vita umana, quali ne fosse l’inizio, se cioè coincidesse con la nascita o con il concepimento. Né si esplicitava se si dovesse intendere la tutela come giuridica o morale.

La legge sull’aborto quarant’anni dopo

Il tempo intercorso ha avuto l’effetto di esplicitare ambiguità e contraddizioni della Legge 194, a partire proprio dalla tensione irrisolta fra il diritto alla maternità responsabile e la tutela della vita.

Oggi, a distanza di 40 anni, l’aborto è rivendicato sic et simpliciter come un diritto di libertà della donna, mentre il problema della tutela della vita umana è divenuto un argomento politicamente scorretto. L’aborto legalizzato si è, quindi, trasformato in una pratica tendenzialmente contraccettiva, in contrasto con quanto la legge prevedeva: «L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite» (art. 1).

Il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile si è stabilito ormai come diritto a decidere del nascituro, compresa la sua soppressione, con un effetto di scivolamento valoriale verso la barbarie. Ciò ha avuto conseguenze profonde sul sentire comune, ingenerando una mentalità che ha derubricato ad ordinaria rendicontazione la quotidiana strage di embrioni. «La morale – ha scritto J. Ratzinger (La via della fede) – non è un codice astratto ma presuppone un modo di vivere, una mentalità della comunità. Importanti aree vitali di una società possono essere guaste, cosicché la consuetudine devia l’uomo, non lo guida». Il «silenzio della coscienza su questo punto può portare – quindi – a una malattia pericolosa», che mette a rischio la sopravvivenza stessa della nostra civiltà.

Quanto al valore sociale della maternità, esso è rimasto sostanzialmente eluso.

Le carenze di sostegno alla maternità e di politiche familiari in Italia, a differenza di paesi come la Francia, hanno contribuito a contrarre in modo drammatico i tassi di natalità, al punto che il nostro Paese è scivolato agli ultimissimi posti per numero di nati per donna. Né il trend negativo accenna ad invertire.

Fattori sociali ed economici interferiscono negativamente sulla scelta responsabile di avere figli. Fra questi si evidenzia il problema di conciliare la maternità con il lavoro, le cui condizioni di precarietà sono tali da imporre di dilazionare il contrarre matrimonio e il mettere al mondo dei figli. Ancora più drammaticamente, specie nel Sud, che in questi anni ha conosciuto un vero e proprio tracollo della natalità, c’è la difficoltà, se non l’impossibilità, di trovare lavoro, che vanifica ancor prima ogni aspirazione ad essere padre o madre. Insiste, infine, un immaginario della realizzazione personale che fa sì che una donna non identifichi più nelle responsabilità familiari un modello particolarmente positivo.

Il valore sociale della maternità resta, quindi, il compito del futuro. Riconoscere quel valore importa, infatti, politiche di sostegno e di promozione della famiglia che non sono mai state avviate: politiche della casa, che aiutino le giovani coppie, politiche fiscali che riconoscano il carico dei figli, politiche dei servizi, politiche che aiutino le donne a conciliare i ruoli lavorativi con quelli di madre.

Clemente Sparaco


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