Negli Stati Uniti, “pro life – pro choice” non è un derby, ma molto più. Il tema dell’aborto, specialmente in questi ultimi anni, non lascia indifferente più nessuno e tutti sentono di dover prendere posizione a riguardo.
Veniamo a sapere, da un articolo di National Right to Life, che la National Education Association si è espressa molto chiaramente sull’aborto, definendolo, un “diritto fondamentale”. Il più grande sindacato degli insegnanti degli Stati Uniti intende, quindi, difendere il «diritto di una persona a controllare il proprio corpo, soprattutto per le donne, i giovani e le persone sessualmente emarginate». E questo “controllo” è anche a scapito di una vita umana: «La Nea si oppone vigorosamente a tutti gli attacchi al diritto di scelta e sostiene il diritto fondamentale all’aborto».
Attenzione, però. A tutte queste manifestazioni di sostegno dell’aborto segue anche una spiegazione che potrebbe mostrare una realtà antipatica al sedicente mondo “pro choice”: «La leadership delle donne è essenziale per qualsiasi movimento egualitario di successo e quindi deve essere protetta». Notiamo bene, cos’è che deve essere protetta? La donna? No, la leadership delle donne. Certo, perché se le donne in carriera hanno una gravidanza non sono più “produttive” come prima, devono assentarsi per mesi e rischiano il posto. Questo pensa la mentalità comune.
E allora diciamola tutta: con l’aborto la donna non è protetta, ma costretta. Costretta a rinunciare al suo bambino, costretta a rinunciare alle gioie della maternità. Ed è questa, quindi, la libertà che i “pro choice” offrono alle donne.
Invece di sostenere politiche volte a tutelare la maternità, offrono alle donne una sola possibilità: quella di abortire. Ma allora come fanno a chiamarsi “pro choice”, “per la scelta”? Come fanno a dire di lottare per gli interessi della donna, se della donna tutelano solo ciò che fa comodo a loro?
Luca Scalise