02/09/2017

Aborto: non un fatto privato, bensì un problema politico

Talora si sente dire che l’aborto è un affare privato, sul quale nessuno puà sindacare. 

Ma è davvero così? Abortire è una decisione individuale o c’è in gioco qualcosa di più?

Che sull’aborto si giochi una partita essenziale per la nostra stessa umanità lo conferma un libro scritto qualche anno fa del sociologo Luc Boltanski: La condizione fetale (Feltrinelli, 2007). Quello di Boltanski non è un saggio soltanto teorico, visto che per delineare «una sociologia della generazione e dell’aborto» ha fatto ricorso a un centinaio di osservazioni raccolte all’ospedale nonché a una quarantina di interviste in profondità con donne passate attraverso l’aborto.

La lettura del libro conferma effettivamente che la posta in gioco nella pratica dell’aborto coinvolge la definizione stessa di persona umana. Boltanski infatti conclude così la sua indagine sull’aborto: «la condizione fetale è la condizione umana».

Ogni essere umano, osserva il sociologo, può essere considerato secondo un duplice rapporto: in quanto essere umano “nella carne” oppure “per la parola. Essere umano “nella carne” è colui che è «uscito dal ventre di una donna fecondata attraverso rapporti sessuali da un uomo». Ma nei gruppi umani l’umanità del neonato, e con questa la sua entrata in società, passa anche attraverso un riconoscimento simbolico, ovvero “per la parola. Non si dà società che non confermi attivamente l’appartenenza dei nuovi nati alla comunità umana per mezzo di gesti e rituali. Il pensiero corre subito al rito del pater familias romano, che adottava simbolicamente il figlio nell’atto di sollevarlo verso l’alto.

Il dramma dell’aborto sta nella dissociazione tra esseri umani concepiti fisicamente (nella carne) ma che, essendo stati privati di uno statuto simbolico, vengono scartati.

Letteralmente, gli esseri abortiti non hanno parola. Sono senza voce. Questo fatto apparenta i nascituri “scartati” con l’aborto a tutti i minores della società: gli indigenti, i dimenticati, i reietti, gli emarginati, i dannati della terra.

La violenza di una tale discriminazione tra feti scartati e feti salvati discende dalla sua stessa arbitarietà, che implicitamente crea due categorie di feti: «al feto progetto – adottato dai genitori che grazie alla parola accolgono l’essere nuovo dandogli un nome – si oppone il feto tumorale, embrione accidentale, che non sarà oggetto di un progetto di vita».

La mancanza di un progetto genitoriale espone il feto alla concreta possibilità dello scarto. Essendo stata negata la sua esistenza, l’essere soltanto “nella carne” è deumanizzato e assimiliato a un tumore da asportare chirurgicamente. Si scava così un abisso incolmabile tra il feto come accidente, considerato come qualcosa di contingente nel corpo della donna, e il feto “umanizzato” dalla parola della madre. Il problema è che, scrive Boltanski, «gli esseri nella carne non possono essere distinti dagli esseri per la parola». Se «ciò che costituisce un essere umano non è il feto, iscritto nel corpo, ma la sua adozione simbolica», «questa adozione suppone la possibilità di una discriminazione tra embrioni per nulla distinguibili».

Questa discriminazione arbitaria tra feti accolti e feti scartati è eccezionalmente pericolosa per tutta la polis. Se la dignità di un essere umano dipende dallo sguardo altrui, allora non si vede cosa potrebbe impedire di rivendicare un diritto all’eliminazione di qualsiasi esistenza sgradita a quello stesso sguardo.

No, l’aborto non è una faccenda privata. È un problema politico.

Andreas Hofer


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