08/10/2016

Aborto – Sepoltura per i bambini mai nati

La notizia della Polonia  ha fomentato in Italia un forte vociare di motti sessantottini attorno all’aborto: dall’imprescindibilità del diritto di scelta e di autodeterminazione della donna, al fatto che vi sarebbe prima un “grumo di cellule” e poi un “feto”, il quale non ha dignità né posizione ontologica alcuna finché “sosta” nell’utero materno.

Slogan che si mantengono identici in una società che sembra globalmente ignorare l’entità della questione dell’aborto, nel momento in cui si portano argomenti come: le metodologie abortive; l’antropologia dell’embrione; la sindrome post-aborto; ecc...

In modo particolare quest’ultimo fronte, nella maggioranza dei casi, è totalmente oscurato dall’informazione (dis-informazione) mediatica e sanitaria, motivo per cui la donna, che il più delle volte decide per la soppressione del figlio in capo a spinte/convinzioni sociali-culturali date per assodate, non sa vedere lucidamente il dramma dell’aborto fintantoché non vive da protagonista l’illusione di pensare se stessa, già madre, come indifferente alla vita che porta in grembo.

Accade oggi che a testimoniare la fallacia dell’affermazione che una vita embrionale “non è vita”, non è persona, non è degna, sono anche realtà come quelle dei cosiddetti “cimiteri per i bambini mai nati” presenti in varie città, circa cinquanta: Canicattì, Cassola e San Zeno, Bassano, Bologna, Monteviale, Cremona, Roma, Firenze, etc. Spazi nei quali i genitori decidono di seppellire i loro bambini, deceduti per aborti spontanei o soppressi mediante aborti volontari. La sepoltura e il rituale medico-burocratico che accompagna il bambino in cimitero sono i medesimi che si adoperano per qualsiasi altro defunto, così come previsto dall’art. 7 commi 3 e 4 del D.P.R. 10.9.90 n. 285 (e la circolare Donat Cattin del 1988), il quale prevede l’inumazione dei «prodotti abortivi», così come li definisce.

La discrepanza tra visione ontologica e biologica di quell’essere umano, considerato un “prodotto abortivo”, stride quando fa i conti con la realtà effettiva della gravidanza: i nove mesi sono un periodo gestazionale calendarizzato dal momento del concepimento a quello del parto. Significa che ogni donna sa di accogliere una vita diversa dalla sua dal momento in cui due cellule di 23 cromosomi si uniscono per dare origine ad una nuova cellula, con patrimonio genetico proprio e distinto da quello genitoriale, suo statuto e identità. Un individuo unico e irripetibile, che procede al suo sviluppo autonomamente grazie alla completa informazione genetica che porta il suo genoma, e comunica con la madre già nelle primissime ore come testimonia la presenza nel sangue di una proteina, la EPF (Early Pregnancy Factor) avente proprietà immunosoppressive e connessa anche alla crescita e alla proliferazione cellulare, a predisposizione di un ambiente favorevole alla crescita del bambino. Dai più recenti studi, la moderna embriologia ha ampiamente riconfermato l’effettività di quei principi epigenetici di gradualità, coordinazione e continuità: l’inizio del battito cardiaco al 18°-20° giorno, le onde elettriche rilevabili dal 48°-50, udito dalla 23° settimana, vista dalla 24° (il feto risponde a stimoli luminosi e alla luce solare), memorizzazione della voce materna, di odori e sapori, riconoscimento del battito cardiaco e del respiro della madre, e molto altro ancora.

Ogni donna sa chi porta in grembo dal momento stesso della sua generazione, e per tutta la vita sarà portatrice della traccia indelebile di quella presenza. Ammessa o ignorata, questa consapevolezza è il fattore scatenante la sofferenza e il disagio psichico, emotivo e spirituale che la madre vive a seguito di un’interruzione volontaria. Ci sono tre quadri psichici principali: la psicosi post-aborto di natura psichiatrica (comporta uno scollamento completo dalla realtà); il disturbo post-traumatico da stress; sintomatologie di varia natura che comprendono ansia, depressione, ideazione suicidaria, tentato suicidio e diminuzione dell’autostima. Disorientamento e instabilità avvicinano la donna a presunte facili soluzioni, come alcol, droghe, psicofarmaci, disturbi del sonno, dell’intimità, frattura relazionale con il partner, problemi alimentari e atteggiamenti ossessivo- compulsivi. Su questa linea si innesca il bisogno di dare un nome al bambino, di ricordarlo con date, oggetti, simboli a far sì che il lutto possa trovare la chiave per l’elaborazione soggettiva, e poi familiare. In tal senso avere un luogo nel quale contemplare e dialogare con il bambino è una sorta di esigenza che diviene supporto spirituale e psichico per riavere quella presenza perduta.

Una certa accidia intellettuale persuade le donne sulla loro autodeterminazione facendo credere che possa sussistere una libertà senza responsabilità e che lo spessore di questa arbitrarietà basti per la licenza di giudicare un individuo umano, che è già in atto, come l’indefinito in attesa di uno statuto. Misconoscere l’essere persona di una persona è la più grande offesa che si possa fare al genere umano, che la stessa accidia intellettuale ha convertito nella tomba interiore che soffoca donne che sono a loro volta madri, e a loro volta figlie.

Giulia Bovassi

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