12/04/2024 di Gloria Callarelli

Onorificenza del comune di Bari a Boscia. 400mila bambini visti nascere, decine di migliaia salvati

Il curriculum parla da solo: dopo la laurea presso l’Università degli studi di Bari con 110 e lode, e dopo essere stato abilitato all’esercizio professionale di medico chirurgo, il professor Filippo Maria Boscia si è specializzato in Ostetricia e ginecologia nel dicembre 1976. Già Direttore del Dipartimento Materno-Infantile e Fisiopatologia della riproduzione umana presso l’Azienda Ospedaliera di Bari – Ospedale Di Venere, è professore associato e titolare della cattedra di Fisiopatologia della Riproduzione Umana presso la facoltà di medicina dell’Università di Bari e presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani .

Una carriera da premiare e a ciò, in questi giorni, ci ha pensato il Comune di Bari che gli ha conferito l’onorificenza per “alti meriti scientifici, accademici ed etici e per le sue straordinarie doti di umana solidarietà e sollecitudine a servizio della maternità e della vita che nasce”.

Da sempre vicino a Pro Vita & Famiglia, ai nostri microfoni ha raccontato le ragioni del premio, ripercorrendo la sua carriera: «Cinquantacinque anni fa discutevo la mia laurea con il pensiero di voler sconfiggere una piaga all’epoca dominante: l’alta mortalità di donne e bambini, soprattutto tra le donne agricole. Io sono nato in un paese agricolo e conoscevo molto bene il fenomeno. Il loro stare chine e ripiegate sul terreno disturbava la loro gravidanza. La medicina delle emozioni che da allora ho voluto portare avanti nasce così: è una medicina che sconfigge i lutti, il dolore di un papà e di una mamma. Ho capito che quello della tutela della vita sarebbe stato il mio compito: e infatti 400mila bambini ho visto nascere, di cui 40mila assistiti personalmente».

Una carriera segnata dalle sfide: «Dopo la legge 194 ci focalizzammo sui primi due punti: quelli di proteggere la maternità e la tutela dell’infanzia. Così il mio dipartimento divenne effettivamente anche tutela del nascituro, facendo sì che la donna, pur nelle difficoltà e nella disperazione, capisse quanto la vita potesse essere un dono. Ho cercato di imparare a vedere il non visibile e di insegnarlo agli altri. Ho cercato di far comprendere l’importante dialogo madre-feto, di far capire alla donna come il ventre fosse la prima culla di carne, la prima SPA, Salus Per Aquam, ho cercato di aprire queste donne a una grande accettazione della vita che danza. Questo ha fatto sì che vivessi in prima persona con soddisfazione il recupero di tante decisioni».

Il lavoro del professor Boscia ha riguardato anche situazioni ancora più sfortunate come quelle di malformazioni fetali e gravidanze ad alto rischio. Racconta: «Con la collaborazione dei miei colleghi abbiamo creato una visione nuova: il feto come paziente, come persona». E così la diagnosi e l’accoglienza per i bimbi prematuri si è concretizzata anche con «l’alloggio per madri nutrici»: stanze che ospitano questi bimbi nati molto precocemente e le loro mamme che devono nutrirli. L’idea è stata quella di far sì che, all’interno di stanze apposite, il bambino potesse «stare a contatto con la pelle della mamma, sentendone il profumo». Questo «ha permesso che il bambino in difficoltà reagisse in modo più positivo».

Ma anche le sale parto per Boscia dovevano essere accoglienti: «una domiciliazione della nascita con tutte le garanzie: la vicinanza della mamma e del papà e l’ambiente confortevole innanzitutto». Per garantire questo Boscia promosse, insieme all’Accademia delle Belle Arti di Bari, la nascita di vere e proprie gallerie d’arte all’interno dell’ospedale che rendevano l’ambiente più sereno.

Ma anche numerose altre iniziative, tra cui la banca del sangue cordonale, che faceva del feto il primo donatore, e la nascita in tutta la provincia del trasporto di emergenza del neonato, hanno contribuito a rendere il lavoro del professore ancora più profondo e importante.

Un lavoro che è esempio per le nuove generazioni. A lui abbiamo chiesto: se dovesse dare un consiglio ai giovani medici, quale darebbe? «Hanno bisogno di qualcosa che hanno dimenticato. La tecnologia esiste ma deve essere gestita attraverso l’umano. La sola tecnologia allontana il medico dal paziente e non si può: la medicina deve essere sartoriale, ad personam. Deve essere, appunto, medicina delle emozioni. Un medico deve fare medicina accogliente, andando incontro al sofferente. Occorre, oggi più che mai, la relazione, lo sguardo, la cura compassionevole. Umano deriva da humus, terreno. Noi dobbiamo arare e coltivare l’umanità: è questo ciò che oggi manca nella medicina».

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