06/04/2017

Diritto di morire o piuttosto di vivere fino in fondo?

Riprendiamo il colloquio che avevamo cominciato ieri con l’avvocato Francesco Napolitano, uno dei fondatori di Casa Iride (nella foto), del Centro Adelphi e dell’Associazione Risveglio.

Ieri ci ha parlato dell’esperienza di vita – vita vera, “degna di essere vissuta” – che da un paio di decenni si realizza nelle suddette strutture.

Ci ha parlato della vita quotidiana accanto a famiglie che sono state colpite dalla disgrazia di avere un loro caro in Stato Vegetativo, o in Stato di Minima Coscienza, a causa di un grave trauma cranico: persone che – tecnicamente – non sono “malate” ma «hanno spesso “solo” bisogno che qualcuno dia loro da mangiare e da bere, assieme a tutto il calore umano possibile. Ce ne restituiscono molto di più di quanto ne ricevano».

Oggi lo interroghiamo più dappresso sul “diritto di morire” che la legge sulle DAT in discussione alla Camera vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento.

  • Come giurista le chiedo: esiste ancora la distinzione tra diritto disponibile e diritto indisponibile? Si può cancellare? Con quali conseguenze?

Non dobbiamo confondere il piano giuridico con il piano etico, morale, spirituale ed antropologico. Questo secondo piano non può e non deve essere disciplinato da una norma di legge. In una ottica di diritto ( e cioè di norme di legge che regolano il vivere civile di uno Stato), esistono diritti disponibili ed indisponibili, ma essi hanno ad oggetto posizioni che riguardano i rapporti tra soggetti giuridici necessari per una disciplina di convivenza (ad esempio, il diritto di proprietà). Ma non possono esistere “diritti” di tipo etico, morale, spirituale che siano disponibili o indisponibili, perché tali principi sono antropologicamente insiti nell’uomo così come è stato creato, in una indissolubile comunione di corpo e spirito. Nell’uomo non è presente solo il corpo ma anche la spiritualità, in qualunque modo essa la si voglia “sentire”. La spiritualità è anche il soffio della vita e racchiude immutabili principi etici ed antropologici di base. Questi principi non possono dunque mai essere disponibili, perché fanno parte della vita stessa, che viene prima di una volontà o di una organizzazione di beni e servizi (disponibili o indisponibili).

  • La proposta di legge alla Camera prevede un’indebita ingerenza dello Stato nel rapporto tra medico e paziente?

Sono fortemente convinto che la proposta di legge all’esame del Parlamento debba essere ritenuta inaccettabile e considerata irricevibile da parte del corpo medico. A me, che non sono medico, l’idea che una legge possa obbligarmi ad accettare idee ed opzioni anche “contra vitam” (molto spesso del tutto estranee alla realtà attuale clinica e dettate da stati d’animo cangianti, da conoscenze superficiali, da “solitudini depressive” di vita) e possa dirmi come e addirittura con quali parole instaurare il meraviglioso rapporto di fiducia con il mio assistito fa semplicemente rabbrividire. Non oso dunque pensare quale ancora maggiore rabbia e delusione possa provare un medico nel verificare che il nostro legislatore possa essere così lontano da una conoscenza della necessità di lasciar “volare” il connubio medico/paziente, tanto da costringerlo in assurdi confini che vanno contro ogni principio deontologico ed allo stesso tempo vanno contro ogni interesse dell’assistito, cioè proprio quell’interesse che si intenderebbe tutelare. Dico dunque fermamente che è una legge (che per la verità ha più le sembianze di un regolamento amministrativo) ingiusta, dannosa, pericolosa, inutile ed anche incostituzionale. E’ una legge che non serve, a nessuno. La si cancelli dalla agenda parlamentare prima che arrechi danni irreparabili, anche in termini di conflittualità di cui davvero come cittadini non sentiamo il bisogno.

Francesca Romana Poleggi


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