22/04/2018

Donna – E se la maternità porta la felicità?

Donna, la maternità è inscritta dentro di te

Quando ho scoperto di aspettare il mio primo figlio ero una giovane – almeno per gli standard attuali – giornalista (ventisette anni) agli inizi della carriera, non rampante, questo no, ma curiosa di entrare nel mondo del lavoro, desiderosa di farlo bene, e convinta che sarebbe stato possibile anche da mamma grazie a una collaborazione totalmente paritaria con mio marito.
Sono bastati nove mesi per cambiare completamente il mio punto di vista. Non è stata la testa: ero una donna pienamente del mio tempo, imbevuta di convinzioni piuttosto diffuse (quello che conta è la qualità del tempo, bisogna imparare a delegare, i gli crescono: non ti lasciar assorbire troppo, e via dicendo). Non è stata la testa, dicevo, è stata la carne. Mentre io continuavo a pensare che avrei fatto la giornalista, un mestiere che avevo ancora tutto da imparare – sono diventata mamma al secondo contratto a termine, proprio agli inizi della mia esperienza – e la moglie e la mamma senza nessun problema o lacerazione, dividendomi tranquillamente su tutti i fronti, la mia carne mi ha trasformata. E, mentre il mio corpo diventava materno e le mie viscere facevano sempre più spazio a questo esserino sconosciuto (che oggi peraltro supera il metro e ottanta di altezza), il mio cuore veniva trasformato per sempre.

Il cambiamento è esploso in tutta la sua forza quando purtroppo è stato il momento di tornare al lavoro: mio figlio aveva quattro mesi, e se stavo troppo lontana piangeva perché voleva il latte. Io invece piangevo perché non potevo dargliene ogni volta che avrei voluto, e perché volevo lui. Ricordo quel periodo come un enorme continuo sforzo di stare il più possibile con lui, e come una condizione profondamente innaturale.

Ricordo che scappavo dal lavoro come una ladra, una ladra di tempo, e scappavo via da mio figlio di nuovo come una ladra, una ladra di presenza ed energie. Tiravo il mio latte e lo lasciavo in frigo a chi si occupava del bambino in mia assenza – mio marito, la nonna, la baby sitter – perché non volevo il latte arti ciale (sono riuscita a non usarne neanche una goccia con tutti e quattro: ce l’abbiamo fatta da sole io e la mucca), e telefonavo ogni volta che potevo a casa nell’illusione di tenere tutto sotto controllo.

Racconto questa esperienza, così normale, così poco interessante, perché mentre esponendo teorie possiamo essere contestati, di fronte a ciò che ognuno di noi vive nessuno può protestare, tacciarci di essere ideologici, rifiutare. Questa è stata la mia esperienza: da donna emancipata, da fortunata giovane professionista all’ingresso nel mondo del lavoro, e nella sua parte più ambita (per una giornalista televisiva lavorare alla Rai è certo una delle cose più desiderabili che possano capitare), sono stata completamente e irrimediabilmente rapita da questo fagottino di tre chili e qualcosa, ho cominciato a vivere in funzione del suo respiro, del suo odore di latte, dei suoi sorrisi sdentati e bavosi, delle sue poppate, dei suoi baci, e poi delle sue parole buffe e dei suoi abbracci.

Non è stato il fatto di essere una “cattolica tradizionalista bacchettona omofoba repressa”... e via etichettando. È stata la mia normalissima, e neanche troppo meritoria, carne di essere umano, di donna a reclamare la sua parte, rispetto ai miei progetti e ai miei condizionamenti culturali.

Credo che ogni donna faccia questa esperienza all’arrivo della maternità: il problema è che questo diventare madre è sempre più raro e più posti- cipato nel tempo. E così sempre più donne vagano alla ricerca della propria identità, perché sempre meno spesso questa nostra verità ci viene annunciata e proposta come non dico desiderabile (se provi a dire a una ragazzina che le auguri di diventare mamma, e che questo avvenga presto, verrai guardata con sdegno, quando non verranno fatti gli scongiuri, come se la maternità fosse una iattura, o una cosa «Sì, bella, ma non adesso»), ma almeno possibile.

E così andiamo allegramente verso l’estinzione dell’Occidente, e questa responsabilità è soprattutto nostra, di noi donne che abbiamo dimenticato a cosa siamo chiamate.

Magari l’estinzione della nostra storia e della cultura non è un argomento fortissimo per convincere le giovani generazioni a riprodursi, ma questo credo che lo sia: una donna, quando comincia a dare la vita, trova se stessa e diventa felice. Almeno, questa è stata la mia esperienza e quella che ho visto nelle vite delle ormai tantissime donne che ho incontrato.

La donna è chiamata a dare la vita. Tutto in noi parla di questo, tutta la nostra carne e la mente e il cuore sono progettati per fare spazio ad altre vite, per non rimanere chiuse alla ricerca dei nostri obiettivi, della nostra realizzazione. Conosco anche tante donne cui questo regalo grandissimo non è dato, o viene lungamente atteso prima di arrivare. Oppure donne, le consacrate, che decidono da subito di essere feconde in modo diverso, mettendo i propri talenti e le capacità al servizio della vita quando è più debole e minacciata. Questa, scriveva Ratzinger, rimane la profonda intuizione della donna su se stessa: è questo il meglio della nostra vocazione.

In ogni caso, che sia madre nella carne o no, una donna che accoglie questa sua chiamata (ci sono anche madri nella carne che non la vivono appieno, seppellendola sotto più e più strati di convinzioni ascoltate qua e là), trova la sua pienezza. Siamo fatte per donarci, come anche gli uomini, ma noi in modo diverso. L’uomo ama facendo, compiendo azioni fuori di sé, trasformando lo spazio e la realtà che lo circonda, in qualche modo uscendo da sé. La donna invece ama lasciando entrare, facendo spazio.

Di fronte alla debolezza e alla piccolezza della vita la donna naturalmente si china, e sa vedere le necessità. Noi siamo dotate di radar specialissimi di cui l’uomo è sprovvisto. Ci servono a capire chi abbiamo di fronte, e a capirlo anche senza le parole, o magari a dispetto di quello che dice (il radar si rivela utilissimo durante l’adolescenza dei gli). Ci servono a imparare a capire le richieste di aiuto e a soccorrere con più prontezza. Non sto dicendo che tutte le donne siano brave madri, per carità. Anzi, a volte il nostro interesse per gli altri può diventare morboso e dobbiamo fare un lavoro su di noi per imparare ad amare lasciando liberi coloro che ci sono af dati, lavorando per la loro felicità vera e piena. Dico che questo è quello che ci compie, che ci fa veramente e pienamente felici, mentre al contrario quando diciamo no a questa chiamata, come sempre più spesso fanno le donne in Occidente, perdiamo una grande possibilità di pienezza e di felicità.

Mi piacerebbe avere il potere di dirlo alle tante donne che cercano se stesse nei posti sbagliati: fate spazio nella vostra vita, aprite i cancelli, non mettete le barriere della contraccezione... e se una vita dovesse bussare alla porta, apritele! Non sta venendo a portarvi via niente, tanto meno la vostra libertà, perché quella che chiamate libertà spesso è solitudine. Sta venendo solo a portarvi qualcosa in più, un regalo dal valore incommensurabile e totalmente immeritato, qualcosa che vi renderà più capaci, più felici, più realizzate, e in nitamente più amate di prima.

Costanza Miriano

Fonte: articolo pubblicato sulla rivista Notizie ProVita di aprile 2016, pp. 17-18

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