03/04/2017

Donna: una specie in via d’estinzione?

Felice e orgogliosa di essere donna, mi chiedo che senso abbiano tutte le smancerie (tipo le quote rosa e  la “festa della donna”) che si fanno alle donne oggi, in un mondo che tende a annullarle: tende ad annullare le donne e la femminilità.

A seguito dell’ennesima discussione sul “gender gap” che pare annichilire i diritti delle donne, voglio condividere con voi, Lettori del nostro sito web, un articolo che era apparso sulla nostra rivista mensile , Notizie ProVita, nel numero dello scorso mese di marzo, in occasione della Festa della Donna.

E magari con l’occasione, mi permetto di ricordarvi che a fronte di una donazione a ProVita onlus, avrete – insieme alla nostra gratitudine –  questo ottimo strumento di formazione, informazione e approfondimento (con articoli inediti) direttamente a casa vostra.

Al liceo, negli anni ’70, quando il collettivo femminista della scuola metteva in riga professori, presidi e bidelli, l’8 marzo era una festa “seria”, “in ricordo delle operaie massacrate nel 1908 nella fabbrica di camicie di New York”. Molto tempo dopo ho scoperto che il rogo era inesistente, una balla clamorosa, inventata dalla propaganda sovietica nel ’22.

Non so se le ragazze del collettivo l’hanno mai saputo e se si sono indignate anche loro. Io – a dire il vero – la Festa della donna l’avevo comunque già in antipatia. Perché solo le donne vanno festeggiate? Perché non c’è la Festa dell’uomo? Mi sembrava – e mi sembra – non un momento di emancipazione, ma una specie di contentino, una gentile concessione (dall’alto) di cui sinceramente non sentivo e non sento il bisogno.

In più mi dava l’idea di essere banalizzata, sminuita, come persona: come tutti ho le mie feste e le mie ricorrenze e non avevo certo bisogno dell’8 marzo per andare a mangiare la pizza con le amiche.

Ma ci stanno riprovando a farmi sentire – in quanto donna – una “specie in via d’estinzione”, una categoria socialmente debole che merita protezione particolare: per esempio con le ridicole “quote rosa”. Chi l’ha detto che per fare un alcunché bisogna “riservare” delle quote alle donne? Sono handicappate? In qualsiasi competizione – che sia leale, ovviamente – deve vincere la persona migliore, più adatta, a prescindere dal sesso. Per me le quote rosa sono addirittura offensive.

Ma le donne vanno “protette” a tutti i costi. Perciò hanno montato la storia del “femminicidio”. Certamente la violenza è da condannare. La violenza dell’uomo, che mediamente è fisicamente più possente, sulla donna, soprattutto in casa – laddove si presume che la donna sia affettivamente coinvolta – è da vili, da vermi disgustosi.
Ma anche sulla questione dei “femminicidi” vanno in giro grosse balle: i dati che provengono da fonti attendibili come il Rapporto sulla Criminalità in Italia del Ministero dell’Interno, dicono che le donne uccise sono sempre meno:192 nel 2003, 179 nel 2013 e 152 nel 2014. In percentuale le donne sono circa il 30% delle vittime di omicidio. Quindi il 70% sono maschi. Anche negli altri reati dovuti a questioni sessuali, il numero di vittime maschili è maggiore del numero di vittime femminili: 51,11% contro 48,89%.

Ma la cosa più sbalorditiva, che ha sbalordito pure il giornalista del Washington Post che ha fatto la ricerca e ci ha scritto un articolo, è il “paradosso nordico”: i Paesi europei che hanno i più alti standard in materia di tutela dei “nuovi diritti” e di “gender equality” (hanno dato piena attuazione alla Convenzione di Istambul, sulla parità di “genere”), hanno anche gli indici più elevati di violenza domestica contro le donne. Danimarca, Svezia e Finlandia detengono il triste record. Gli studiosi hanno anche fatto i calcoli con l’eventualità che le donne più “libere” denuncino più facilmente gli abusi. Non c’è niente da fare: i risultati non cambiano. La condizione della donna, in relazione alle violenze, agli abusi e ai “femminicidi”, è di gran lunga migliore in paesi come la Polonia, la Grecia, e perfino l’Italia.

Le ricerche dimostrano che la violenza sulle donne è scatenata dall’abuso di alcol e di droghe. La libertà e spregiudicatezza nei costumi sessuali, l’educazione sessuale “completa”, fin dai primi anni di scuola, la contraccezione e l’aborto liberi e a richiesta, di cui si fanno vanto i Paesi nordici, non servono affatto alla “liberazione delle donne”: tutt’altro. Per non parlare della pornografia (anche di quella “soft”, quella che passa a tutte le ore sugli schermi delle TV, nelle pubblicità e nei film che vanno in onda in prima serata). L’incidenza tra i fruitori del porno di stupratori, molestatori sessuali e persone che ricorrono a minacce e intimidazioni per “ottenere il sesso” è decisamente rilevante, secondo i ricercatori dell’Università dell’Indiana e dell’University of Hawaii a Manoa, i quali hanno eseguito una meta-analisi di 22 studi provenienti da tutto il mondo. La nostra società fa molta propaganda per ridurre i comportamenti a rischio: si pensi alla sicurezza stradale o alle campagne contro il fumo. Ma sulle prime pagine dei giornali, sugli autobus, tra i manifesti della Presidenza del Consiglio per la “Pubblicità Progresso”, qualcuno ne ha mai visti con su scritto “no alla pornografia” o “la pornografia fa male a te e ai tuoi cari”?

Questo voler parlare in ogni occasione di violenza di “genere” e di “femminicidio” serve solo a fomentare l’odio tra i sessi e a far propaganda alla più la violenta ideologia femminista, quella che vuole “liberare” la donna negandole innanzi tutto la femminilità, la naturale tendenza alla maternità come realizzazione di sé, e che in buona sostanza mira a sfasciare la famiglia.

Oggi, poi, da un lato si nega alle donne il fondamentale diritto ad essere se stesse, cioè esseri femminili, ma dall’altro si pretende di conferire il diritto d’esser donna a persone che hanno da prima della nascita scritto nel DNA di tutte le cellule il sesso maschile.

E  la propaganda martellante continua a insinuare che i “femminicidi” sono il risultato della mentalità retrograda, patriarcale, che non accetta l’emancipazione femminile.

Invece, un noto psichiatra come Alessandro Meluzzi scopre che il tipico maschio “femminicida” è un “maschio fragile”, nato e cresciuto in una società liquida, fatta di legami che non tengono, senza certezze e senza sicurezze, di coppie precarie e di divorzi brevi, terrorizzato dalla paura dell’abbandono, che facilmente degenera in modo violento: per combattere il “femminicidio” bisogna smettere di tentare di distruggere la famiglia.

Se vogliamo celebrare una vera festa della donna, che non sia una presa in giro, dobbiamo prima recuperare il valore vero della famiglia.

Francesca Romana Poleggi


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