13/04/2016

Gender all’asilo: perché “Piccolo Uovo” non ci piace

Grazie al Comitato Articolo 26, possiamo ragionare – pacatamente e col buon senso – sul perché un libretto come “Piccolo Uovo” è un mezzo di propaganda ideologica gender.

Sul perché non è un libro adatto a bambini piccoli. E quindi sul perché le mamme romane di cui abbiamo parlato qui, hanno fatto bene a protestare.

Il Comitato ha riportato le riflessioni del dottor Paolo Scapellato – psicologo e psicoterapeuta, docente a contratto di Psicologia Clinica all’Università Europea di Roma – che afferma: “Il libro fa parte di quel tipo di letteratura definita di genere (o gender), in quanto afferma il primato della cultura sulla natura, non riconoscendo anzi quest’ultima come fondamento della vita”.

Il bambino diventa uno “strumento di cambiamento culturale determinato da una parte degli adulti. Asserendo che la famiglia tradizionale sia frutto di dinamiche puramente culturali, si fornisce un’altra concezione puramente culturale” introducendo il bambino “in un modo di leggere il proprio mondo assolutamente relativista”.
“A livello educativo,” continua Scapellato,è importante che il bambino colga la sua natura e la natura del mondo in cui vive: papà e mamma insieme possono generare un bambino, il quale avrà bisogno di cure e affetto per poter crescere in maniera sana”, mentre in libri come quello di Francesca Pardi, “ampliando il concetto a tutte le unioni possibili si perde l’importanza delle figure genitoriali. I concetti di padre e madre rimangono vuoti, legati esclusivamente all’esser maschio o femmina. Si perde il concetto di paternità, di maternità, di differenze sessuali”.
Nel libro per di più viene presentata al bambino una realtà alla rovescia, sottolinea lo psicoterapeuta: “Affermare che ogni tipo di unione è famiglia e quindi tutte le famiglie hanno diritto ad avere figli è un’inversione logica delle cose: dal fatto che due persone, maschio e femmina, si uniscono e generano un figlio, allora la società li riconosce ufficialmente come famiglia responsabile della crescita di quel nuovo cittadino, si passa al riconoscimento della famiglia e quindi al diritto di avere un bambino”. 

Piccolo uovo” viene proposto a bambini dai 2 ai 4 anni che non hanno “capacità riflessive per cogliere tali sottigliezze e prendere quindi una posizione critica. Insegnargli quindi un concetto esclusivamente artificiale, allontanandolo dalla comprensione della natura di cui fa parte, assomiglia molto a un atto di plagio”, afferma Scapellato, che conclude: “Dato che tutta la psicologia dello sviluppo si basa sull’individuazione delle fasi universali della crescita umana (sviluppo affettivo, cognitivo, sociale e morale), appare ingiustificato qualsiasi azione educativa basata sul relativismo etico”.

Resta la libertà per chiunque di comprare, leggere e far leggere libri come Piccolo Uovo ai propri figli. Ma non a quelli degli altri.

Redazione

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