04/01/2016

Gender come ideologia del “consumo”

Un corpo aperto a ogni possibilità: è l’ideale disegnato dagli esponenti del gender più radicale, come Judith Butler e Donna Haraway. Sulla scia di Monique Wittig, Judith Butler sostiene la necessità di rovesciare la «restrizione binaria del sesso» e di distruggere il «sistema di eterosessualità obbligatoria». Dalle rovine del sistema si alzerà finalmente il «vero umanesimo della “persona” liberata dai ceppi del sesso».

Con Donna Haraway, che porta alle estreme conseguenze la frattura tra natura e cultura, il gender sconfina invece nel postumano. Il suo Manifesto cyborg inneggia alla possibilità di un miscuglio di carne e tecnologia. Si approssima, dice Hraway, l’alba di una nuova creazione: il cyborg, «creatura di un mondo post-genere». Si tratta di denaturalizzare – cioè di distruggere – la categoria stessa del sesso. 

Il gender sembra così destinato a ripercorrere il medesimo itinerario del ’68. È stato il filosofo Augusto Del Noce uno dei primi a leggere la Contestazione sessantottina come una rivoluzione intraborghese: la ribellione giovanile, disorientata dal permissivismo, si illuse di combattere il capitalismo e la tecnocrazia. Nei fatti essa si pose al servizio di un progetto di sovversione dell’ordine morale tradizionale (la orwelliana «common decency», irrinunciabile pilastro di una società giusta).

E così il relativismo veicolato dalla contestazione finì per aggredire quel patrimonio di valori – riassumibile nell’espressione di «cultura del dono» – che fungeva da argine alla penetrazione della mercificazione in tutti i campi della vita sociale.

La rivoluzione genderista, a ben vedere, non fa che proseguire questa grande trasformazione in cui si passa dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato. C’è una differenza non da poco: un’economia di mercato è uno strumento, anche prezioso, per organizzare le attività produttive. Una società di mercato invece è uno stile di vita, un modo di vivere in cui ogni aspetto della vita umana viene valutato secondo i parametri del mercato. È il ritorno puro e semplice a certi costumi del paganesimo, che determinavano il valore della persona umana assegnandole un «prezzo».

Anche l’idea di identità fluida promossa dal genderismo si iscrive con ogni evidenza in un orientamento diffuso delle società ipermoderne: la tendenza ad adottare anche per il corpo quella «legge della variabilità» che ab immemorabili guida e caratterizza il funzionamento della moda.

Osserva il sociologo Vanni Codeluppi, acuto indagatore delle logiche consumistiche, che nella società contemporanea anche il corpo, entità biologica apparentemente irriducibile a una logica di mercificazione, è divenuto luogo di scambio dei flussi della comunicazione e del consumo.

È un processo che si innesca proprio a seguito della delegittimazione dei tradizionali segni di status, la cui perdita di significatività contribuisce a rendere il corpo un basilare mezzo di comunicazione dell’identità individuale. E questo avviene associando al corpo non più qualità personali, sempre meno rilevanti in una civiltà del consumo dove appare di gran lunga più incisiva la capacità del singolo di scegliere tra i diversi beni offerti dal mercato.

gender_vendita_gameti_mercatoÈ una manifestazione dell’attuale «potere della marca». Le marche aziendali costituiscono oggi un serbatoio di significati a cui l’individuo può attingere per costituire la propria identità. Nella confusione generalizzata di un mondo sociale come quello attuale, sconnesso e disorganico, privo di stabili riferimenti, le marche paradossalmente si presentano e vengono percepite come personalità più nette e definite. Questo avviene grazie all’attività di comunicazione delle aziende: in una società della discontinuità, dove tutto scorre e scompare velocemente, è la marca, facendosi vedere più spesso per via dei meccanismi della pubblicità, ad apparire come una realtà relativamente più stabile delle altre.

È certamente una stabilità di corto respiro: anche la personalità della marca è destinata infatti a mutare per effetto dei cicli di variazione delle mode. Ma nonostante tutto essa mantiene pur sempre un sufficiente potere di attrazione: quel che basta per catalizzare l’uomo sconnesso di oggi, invitandolo al gioco di costruzione delle identità consentito dal flusso delle marche.

Il corpo assume così le parvenze di un corpo-packaging: continuamente soggetto a manipolazioni di ogni sorta, il corpo diventa un feticcio pienamente investito dalla tendenza a dotarsi dei segni del consumo e a esibire su di sé i materiali provenienti dalle differenti merci.

È lo stato del «corpo flusso»: un corpo smaterializzato e nomadico, in stato di variazione permanente, senza confini e identità fisse. E che si confonde col mondo esterno, diventando un continuo «passaggio». Il modello del corpo flusso mette in questione lo stesso principio di individuazione. Il logo si sostituisce al logos: è l’oscuramento dell’individualità. Sembra così avverarsi la profezia di Nietzsche: «L’individuo stesso è un errore». 

Non deve essere un caso la moltiplicazione di voci come quella di Wolfgang Sofsky, pronte ad ergersi «in difesa del privato». Luigi Zoja deplora invece la «morte del prossimo», con la sua presenza viva e tangibile. Col tramonto della capacità di definirsi come esseri singoli anche l’individuo sembra sul punto di dissolversi. Michel Maffesoli, cantore del risveglio di Dioniso, annuncia la sua fine: l’individuo segna il passo di fronte all’avanzata del collettivo. È il tempo delle tribù e delle «comunità emozionali», con le loro promesse di liberazione dalle strettoie dell’io.

Il corpo fluido e infinitamente manipolato si confonde con un laboratorio in cui ogni potenzialità naturale è sovrastata dalla possibilità tecnica. È una parabola che porta alle estreme conseguenze il progetto moderno di autodeterminazione. È il destino della cultura moderna, dice Walter Benjamin, quello di essere condannata a un incessante fluire, di essere sottoposta a un mutamento reiterato e costante.

Il gender si rivela dunque l’ideologia perfetta per la macchina del consumo: un corpo come feticcio, infinitamente variabile, smaterializzato e sottomesso alle fluttuazioni delle mode. E dietro questa illusoria promessa di liberazione si profila la fine della singolarità individuale.

Andreas Hofer

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