03/11/2015

Gender – L’io alla ricerca del padre... per essere libero!

Lo psicologo Massimo Recalcati su La Repubblica del 13 ottobre ha fornito una descrizione molto lucida della liquidazione delle identità così caratteristica del nostro tempo. Una simile condizione deriva dalla  perdita del centro psichico. L’«esasperazione del carattere liquido dell’identità», dice citando Bauman, l’ha resa un concetto vacillante, barcollante, sempre più mobile e borderline.

L’età moderna aveva sempre ricercato una identità solida come la roccia sotto la sabbia. All’opposto, in un’età ipermoderna come la nostra «l’identità pare dissolversi in un camaleontismo permanente», scrive lo psicanalista. Michel Foucault non aveva forse profetizzato la fine del soggetto umano, destinato ad essere «cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia»?

La psicoanalisi non può sottrarsi alla sua parte di responsabilità: per un certo verso essa ha contribuito alla dissoluzione della psiche insistendo su un’idea di disturbo psichico come amplificazione ipertrofica dell’io. Secondo questo punto di vista la causa della sofferenza mentale non sta in un io troppo deficitario e liquido, bensì in un io troppo “identitario”, troppo rafforzato e centrato.

Così tutta una corrente psicoanalitica, da Freud a Lacan passando per Jung, ha scalzato l’io dal centro della psiche. Freud si paragonava a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva sferzato l’orgoglio umano mostrando che la terra non è il centro dell’universo, Darwin aveva inflitto il secondo colpo mostrando la derivazione dell’uomo dai primati. Freud aveva fatto un passo ulteriore e se possibile ancora più sconvolgente: aveva evidenziato come l’io non fosse «padrone nemmeno in casa propria». Il fondatore della psicoanalisi non concepiva l’identità come un centro statico dal quale si esplica la personalità. Essa piuttosto somiglia a un arlecchinesco servitore di tre padroni: strattonato, in direzioni diverse e spesso inconciliabili, da una parte dall’istintualità dell’Es, dall’altra da quel rigido censore che è il Super-Io, infine dalla realtà esteriore.

Sempre su questa scia, ricorda Recalcati, Lacan arriverà a concepire l’io «non come non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido». La peggior follia dell’uomo, da questo punto di vista, è «credersi davvero un io».

La perdita del centro psichico viene salutata dall’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari come una liberazione dell’umanità: «l’identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell’età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita». Senza più un io a fungere da centro permanente e stabile della vita psichica «tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide».

Dall’identità liquida all’identità armata. Anarchia o tirannia?

Tutto bene dunque? Niente più angoscia? Niente affatto. C’è anche un rovescio della medaglia, fa osservare Recalcati. L’evaporazione dell’io innesca una reazione sottovalutata forse anche da Bauman: l’esigenza di trovare una identità solida, non evanescente. È questa necessità ad alimentare il motore del fondamentalismo, dove «il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature». Con la reazione fondamentalista l’io torna ad essere più che mai padrone (più che padrone, tiranno) in casa propria. E non solo: il fondamentalista è aggressivo. Inebriato dalla smania conquistatrice, aspira ad insediarsi anche in casa d’altri.

La perdita del centro identitario e la liquefazione dell’io aprono la strada a un io armato e corazzato, forte di una concezione paranoica dell’identità.

La lucida analisi di Recalcati si ferma qui, lasciando spazio però a una certa delusione. Recalcati delinea un quadro clinico, identifica sintomi e segni di una malattia. La sua diagnosi individua l’origine dalla patologia, ma non riconosce la sua causa e tanto meno indica una terapia. Non indica infatti alternative positive alla nefasta alternanza tra io liquido e io armato. E questa omissione appare il segno dell’incapacità – o dell’impossibilità – di sottoporre a revisione critica i fondamenti di un orizzonte di pensiero che egli stesso condivide. Baste prendere visione del suo ultimo libro, Le mani della madre, per accorgersi che lo psicanalista milanese scorpora la funzione materna dalla madre reale, intesa come la genitrice biologica del figlio. Come per Freud, per lui “madre” è solo il nome della prima figura che si prende cura di una vita umana riconoscendola come propria creatura: «Questo significa che “madre”, al pari di “padre”, sono figure che trascendono il sesso, il sangue, la stirpe e la biologia» (p. 24).

Anche Recalcati, in buona sostanza, è un esponente di quella che la sua collega Janine Chasseguet Smirgel ha definito “rivolta contro l’ordine biologico”, e che rappresenta la forza motrice delle variegate teorie del gender. L’io liquido è il destino dell’uomo contemporaneo, l’io armato è la reazione. All’analisi di Recalcati mancano le coordinate utili a oltrepassare questo schema progresso-reazione.

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Gender – L’io alla ricerca del padre: non c’è alternativa tra l’io liquido e l’io armato?

Dunque il dramma è questo: nessuna alternativa tra un’anarchia senza legge e una tirannia dispotica. Ma è possibile che non vi sia scelta che tra la libertà senza ordine dell’io liquido e l’ordine senza libertà dell’io armato?

Da una parte avremmo un io liquido, senza confini e polimorfo, una sorta di Proteo capace di assumere qualunque natura. Un’identità che si concepisce come una libertà infinita senza alcuna forma. All’io liquido corrisponde invece la revisione della psicologia operata da James Hillman, lo junghiano “eretico” che invita esplicitamente ad abbandonare il «monoteismo della coscienza». Bisogna abbandonare Roma e tornare ad abbracciare la Grecia e i suoi dèi plurimi, dice Hillman, che raccomanda perciò la paganizzazione della società e la disintegrazione della psiche. Quello che per Roma è disturbo o disordine non è che il segno che «la coscienza non è più schiava del centro egoico» ed è stata «liberata dalla sua identificazione romana, dal governo centralizzato diretto dalla volontà e dalla ragione».

La liberazione non sta dunque nel resistere alle personalità multiple che assediano l’integrità dell’io. La vera libertà sta nell’accettarle, ci dice il discepolo di Jung. Non sono i disordini interiori e le dissociazioni della coscienza a essere patologici. La vera malattia è «l’io romano con la sua centralità». Non si deve insistere nel proporre, come volevano Freud e Jung, l’unificazione della psiche. Un simile atteggiamento non sarebbe che un riflesso del monoteismo. Meglio invece promuovere un «politeismo psicologico». Utilizzare un’unica figura «unificante» — come la Vergine Maria, ad esempio — depaupera la psiche. Molto meglio ricorrere a una molteplicità di figure come Persefone, Artemide o Atena. Accogliere la dissoluzione politeistica dunque è la cura, la strada per uscire dall’autoritarismo del monoteismo psichico. In alternativa all’unificazione psichica Hillman introduce un nuovo concetto: «fare anima», inteso come esplorazione continua e intermittente della psiche, una sorta di terapia ininterrotta.

Dall’altra parte non ci sarebbe che una identità puramente reattiva: un io armato, tetragono, senza sfumature, crepe o zone d’ombra. L’io armato è una maschera rigida, terrificante, un’identità mostruosa che non riconosce legittimità alcuna a confini e frontiere esteriori. Dopo averli conquistati, al loro posto innalza muri invalicabili all’interno dei quali esercitare una tirannia assoluta sui campi dell’io. In questo senso l’io armato assume le sembianze di una forma finita senza alcuna libertà.

L’io armato appare una revisione fondamentalista del «monoteismo della coscienza» propugnato da Sigmund Freud, che aveva cercato di arginare le spinte disintegratrici della psiche descrivendo lo sviluppo dell’io come l’esito di un particolare processo di bonifica, attività romana per eccellenza. I territori e le paludi da prosciugare non sono altro che quelli della psiche, i quali attendono di essere liberati dalla proliferazione della pulsioni nevrotiche, disgregatrici, che frammentano e ossessionano l’io malato. Per lungo tempo una prolungata Pax Romana è riuscita a soggiogare queste tendenze dissociative, unificando e centralizzando l’io sotto la guida della ragione e della volontà. Là dove era l’Es è subentrato l’Io. Freud non ha timore di definirla un’opera di civiltà. Ma l’io armato del fondamentalismo fa di più: richiamando in servizio l’ossessione paranoica trasforma il buon governo in tirannia, tramuta la pax in bellum e perverte l’opera di bonifica in opera di distruzione. Per unificare una psiche a rischio di disgregazione catalizza e mobilita tutte le forze interiori indirizzandole contro un nemico esterno. Alla giustizia di Roma l’io armato sostituisce il terrore e la violenza delle orde barbariche.

Nel nostro tempo non sembra esserci alternativa al dualismo tra Hillman e Al Baghdadi. O un io dissolto in un politeismo neopagano di personalità psichiche oppure un irrigidimento fondamentalista del monoteismo della coscienza teorizzato da Freud. O dissoluzione o sclerotizzazione, o relativismo o fondamentalismo. Tertium non datur.

Gender – L’io alla ricerca del padre: la risposta post umana

Ma le cose stanno davvero come dicono La Repubblica e i suoi editorialisti? L’identità liquida è il progresso, la civiltà, e l’identità armata rappresenta la reazione e la barbarie? Le cose non sono così semplici: a uno sguardo più attento, tra quelli che appaiono come poli contraddittori pare esserci un sostrato comune. È il tecnicismo che presiede alle nuove prospettive del transumano o del postumano. Fabrice Hadjadj su Avvenire ha richiamato l’attenzione sul nodo perverso che nella società ultramoderna e ultrasofisticata del comfort unisce innovazione e pulsionale. Da questa unione nasce un mondo «che corre sui binari di una socialità automatizzata e che deraglia all’improvviso in una barbarie tale da terrorizzare i barbari di un tempo […]. Ecco l’orizzonte dell’innovazione: la fabbricazione e il perfezionamento del pulsionale». (1)

gender_Trascendence_film_tecnologiaLa postmodernità è caratterizzata precisamente da questa sinergia dell’arcaico e dello sviluppo tecnologico. Ciò appare evidente nelle nuove filosofie del “trans” e del “post” umano, che rifiutano la costitutiva fragilità del corpo umano. Il rigetto dell’umana vulnerabilità, che disconosce uno dei tratti costitutivi della condizione umana (2), spiega così il desiderio dei cultori del postumano di ibridare il corpo umano con le macchine e i metalli pesanti. La fusione con l’inorganico serve a fortificare il soma, serve a renderlo forte e inscalfibile come un’armatura (tipica suggestione narcisistica che ricorre in autori come Mishima, ad esempio).

Allo stesso tempo queste visioni propugnano un genderismo radicale: l’io deve abituarsi a “trasmigrare” (anche in un corpo meccanico). Addirittura si favoleggia di trasferire la coscienza su supporti digitali (su un hard disk esterno, è il cosiddetto “Mind uploading”). Per il tecnicismo radicale l’io liquido è il preludio del corpo armato.

Si impone così un corporeo aperto ad ogni possibilità che non solo è assimilato a un vestito (cioè a una cosa semplicemente utile e sostituibile), ma è anche un corpo che da vestito diventa scudo, corazza, armatura. Passiamo così impercettibilmente dalla zona dell’essere a quella dell’avere.

La risultante è un uomo ipertecnologico, orientato a costituire se stesso come un soggetto al tempo stesso potenziato (enhanced) e protetto (safe) da ogni genere di pericolo. Un uomo tuttavia sempre meno attrezzato per far fronte con mezzi propri, senza la schermatura tecnologica, al lato negativo dell’esistenza. Questa delega universale alla tecnica delle proprie facoltà lo rende un essere meno capace di affrontare le difficoltà, lo sguarnisce di fronte all’imprevisto. Si imprimono così nel suo diagramma psicologico i tratti della tipica psicologia da “signorino soddisfatto”. Ciò che rischia di farne un bimbo viziato e immaturo è proprio una tale combinazione della massima potenza e della integrale protezione. Privando l’uomo dell’esperienza del rischio e del negativo, lo si sgrava anche da tutto quello che assolve una funzione corroborante e contribuisce a temprare la natura umana. A tanto rischia di portare l’ebbrezza dell’illimitato.

Nel suo  Elogio delle frontiere, Régis Debray concentra la propria attenzione sul nodo perverso che lega l’ostilità verso ogni idea di frontiera o confine e l’epidemia di muri che ha invaso il nostro mondo. La modernità liquida e il fondamentalismo rigido sono due facce della medesima medaglia. Le due ganasce di questa tenaglia – l’io liquido e l’io armato – possono essere spezzate solo da un io che sappia dare dei limiti al caos ma che lasci anche libertà di movimento. Una psiche sana ha bisogno di muoversi ma anche di arrestarsi davanti a un limite. Per questo occorre un io dalle fondamenta solide ma flessibile nelle articolazioni, un’identità che sappia anche accogliere l’umana fragilità e liberare dalle nevrosi devastatrici.

Affrancare dalla prigione delle pulsioni distruttive è precisamente il dono – potremmo dire anche il carisma tipico – della figura del padre. Per ritrovare il centro nel labirinto delle identità è assolutamente vitale seguire il filo d’Arianna del «codice paterno» (3). Bisogna riabilitare la figura del padre, l’uomo che sta alla frontiera tra la famiglia e la società, e che pone le condizioni per trovare il proprio posto nella vita sociale. Assegnando una legge (in greco il significato originale di  nòmos, la legge, è “ciò che è diviso in parti, ciò che è assegnato, spartito”) il padre traccia anche un limite.

Arginare la confusione è anche il senso e la funzione della frontiera, che indica la fine, il limite ultimo della terra. La frontiera è l’ultimo avamposto prima delle terre del caos. Varcare la frontiera significa inoltrarsi in territori invisi agli dèi, equivale a oltrepassare i limiti del giusto e del consentito. Oltre la frontiera stanno le terre del mostruoso, i campi del caotico e dell’indeterminato.

Per uscire dal falso dualismo tra dissoluzione e sclerotizzazione non basta la tecnica. Serve una sintesi di ordine e di libertà, altrimenti non avremo che una libertà senza ordine sempre pronta a rovesciarsi in un ordine senza libertà.

Andreas Hofer

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(1) Fabrice Hadjadj, La sfida dell’innovazione? Il perfezionamento del pulsionale, «Avvenire», 25 ottobre 2015.

(2) «Cosa sarebbe della condition humaine stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto?» (Eugenio Borgna,  La fragilità che è in noi, Einaudi, Torino 2014, p. 7).
(3) Sulla costante azione liberatrice della figura paterna si può vedere Claudio Risé,  Il padre. Libertà e dono, con prefazione di Pietro Barcellona, Ares, Milano 2013. Di codice «paterno» e «materno» parla Franco Fornari nel suo  Il codice vivente  (Bollati Boringhieri, Torino 1981).

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