10/06/2017

Giovani segregati in casa (per scelta): sono gli “Hikikomori”

Li chiamano “Hikikomori”. Sono giovani che da almeno sei mesi consecutivi non escono di casa: vivono segregati nella loro stanza, guardando serie TV o navigando in internet, accettando – e neanche sempre – come unico contatto quello dei familiari con cui condividono la casa. Per tutto il resto si affidano alle nuove tecnologie: per fare la spesa, per comprare vestiti, per trovare strumenti per passare il tempo...

L’antropologa Carla Ricci, che si è trasferita in Giappone per studiare il fenomeno per conto dell’Università di Tokyo e che ha pubblicato Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, afferma: «Gli Hikikomori hanno perso la passione per la vita. La vita che fanno è assolutamente alienante». Un fatto, questo, che va a negare la predisposizione che generalmente anima i giovani, ossia la curiosità e l’entusiasmo verso il mondo che li circonda.

Giappone, la patria dei giovani “Hikikomori”

In Giappone, dove questo fenomeno è nato ed è maggiormente diffuso, i giovani “Hikikomori” censiti sono circa un milione e mezzo: tuttavia il timore è che il numero sia più elevato, ma che la vergogna delle famiglie d’origine tenda a non rendere noto il problema.

Per porre un argine al dilagare di questa “solitudine volontaria”, nel Paese sono sorti diversi centri di “riabilitazione alla vita sociale”: luoghi dove i ragazzi che decidono – dopo anni, talvolta decenni – di uscire dalla propria stanza possono gradualmente tornare a vivere in maniera normale, relazionandosi con altre persone e svolgendo qualche piccola mansione (a partire dal riordinare delle carte, per arrivare a cucinare e a fare attività complesse).

I giovani “Hikikomori” in Italia

I giovani “Hikikomori” non sono tuttavia solo giapponesi. Anche in Italia il fenomeno sta prendendo – purtroppo – piede. Nel maggio del 2016 Le Iene avevano dedicato un servizio a questo fenomeno (visibile qui) e recentemente è stato anche aperto un sito online di riferimento, che aiuta a comprendere il fenomeno e pone le basi per una condivisione sia da parte dei giovani, sia delle loro famiglie.

Come i colleghi giapponesi, i giovani italiani che decidono di isolarsi dal mondo presentano quali caratteristiche dominanti la timidezza e l’introversione; tuttavia, rispetto agli asiatici si evidenziano anche importanti differenze: se la media dei giovani “Hikikomori” giapponesi ha circa 25 anni, in Italia l’età si aggira attorno ai 16 anni; inoltre, i giovani nostrani si dimostrano più introspettivi, ossia in grado di elaborare motivazioni più complesse per dare una spiegazione alla loro scelta di tagliare i ponti con l’esterno: mancanza di interesse, delusione verso le persone, incapacità di sostenere relazioni paritarie...

Come presagire l’insorgenza di questo fenomeno? Non è cosa facile, dal momento che i giovani iniziano a rifiutarsi di uscire adducendo come motivazione la mancanza di voglia. In seguito, tuttavia, questa “scelta” (almeno apparente) si trasforma in una vera e propria incapacità di porre i piedi fuori dal confine della propria stanza: la solitudine genera solitudine e il soggetto rimane, suo malgrado, “imprigionato”.

Come aiutare i giovani ad “aiutarsi”?

Una cosa comunque rimane certa: siamo persone di relazione, i giovani forse in misura ancora maggiore rispetto agli adulti, e il fatto di vivere da soli non è umanamente possibile (ad esclusione degli eremiti, che tuttavia vivono una relazione con Qualcuno di più grande, quindi in linea di principio non sono isolati).

La nostra società dovrebbe quindi interrogarsi da un lato sulle motivazioni che spingono persone ancora nel pieno della scoperta della vita a fare questa scelta intrinsecamente mortifera; dall’altro sul fattore educativo: fino a che punto è corretto cedere di fronte alla testardaggine di giovani che sostengono di «non avere voglia» di uscire e di implicarsi attivamente nel mondo, con le fatiche ma anche le soddisfazioni che questo comporta?

La sfida è in corso e si prospetta impegnativa: tanti giovani hanno bisogno di essere salvati da loro stessi.

Teresa Moro


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