02/03/2016

Gli italiani non fanno più bambini. Forse guardano troppa TV?

In Italia non nascono più bambini e le mamme sono sempre più vecchie.

Questo il disastroso quadro che emerge dai dati diffusi dall’Istat il 19 febbraio 2016, che evidenziano come gli indici di natalità del 2015 abbiano fatto segnare un nuovo record negativo. I nati sarebbero stati circa 488000 (pari a 8 per mille abitanti), almeno 15000 meno dell’anno 2014, che, a sua volta, aveva fatto segnare un record di denatalità.

Ci troviamo lungo un crinale di diminuzione delle nascite e di decadenza demografica ormai consolidato, come mostra il grafico degli indici di natalità degli ultimi 10 anni, qui di seguito riportato.

bambini_natalità_Italia_grafico_2015_demografia

Gli italiani fanno sempre meno figli (1,35 per donna) ed in età sempre più avanzata (l’età media delle madri al primo parto è salita a 31,6 anni).

Le ragioni sono molteplici e complesse.

Nel quadro di una situazione di stagnazione economica, se non di recessione, la disoccupazione, che raggiunge livelli record, gioca certamente un ruolo notevole nel deprimere la natalità. In particolare, lo gioca quella giovanile, visto che sono calati sensibilmente gli occupati under 35. Il tasso di occupazione è sceso dal 50,4% del 2008 al 40,2% del 2014. Contemporaneamente sono aumentati i giovani, tra 15 e 29 anni, che non studiano né lavorano.

La crisi economica scoraggia i giovani che vorrebbero mettere su famiglia e le giovani coppie che aspirano ad avere bambini. A fronte della necessità che tutti e due i futuri genitori lavorino, perché altrimenti non ci sono entrate sufficienti, si riscontra mancanza o precarietà di lavoro. Un dato drammatico rivela che tra il 2008 e il 2013 sono aumentati di 303mila unità i padri disoccupati e di 227mila unità le madri disoccupate.

Ma non è solo la precarietà o la mancanza di lavoro ad incidere negativamente. Un problema quasi insormontabile è rappresentato dalla strutturazione del mondo del lavoro. Nel nostro paese, infatti, il lavoro, non solo privato, ma anche nella pubblica amministrazione, è strutturato in un modo da non tener conto delle esigenze familiari ed, in particolare, dei tempi del bambino. Perciò mal si concilia con la funzione genitoriale.

donna_casalinga_bambini_stirare_animali-domesticiIl sovraccarico degli impegni domestici sulle donne è difficilmente tollerabile. Secondo studi della CGIL-Marche relativi al 2012, il 22 per cento delle donne non ha un parente cui affidare il bambino, il 18% non ha ottenuto l’iscrizione al nido, l’8 per cento si lamenta degli elevati costi dei servizi nido e baby sitter, il 2 per cento si dimette per mancata concessione del part-time. Nel 2012 quasi una madre su quattro, a distanza di due anni dalla nascita del figlio, non aveva più un lavoro.

Si aggiungono poi le difficoltà abitative, la carenza di servizi, il costo economico e sociale dei bambini che nascono.

Alle donne, quasi in perfetta solitudine, è rimessa, in definitiva, la scelta di mettere assieme maternità, cure familiari, lavoro domestico ed extradomestico. Ne consegue che ci sono sempre più donne che rinunciano al lavoro per la maternità o che rinunciano alla maternità per il lavoro.

L’inconsistente politica della famiglia

Ciò che appare caratterizzare l’approccio al problema nel nostro Paese è un’oscillazione tra una centralità dichiarata della famiglia e la sua sostanziale marginalità come soggetto delle politiche sociali. Al richiamo teorico alla necessità di una sua promozione si contrappone una sostanziale noncuranza, il cui segnale principale è quello che potremmo definire l’inconsistenza” delle politiche familiari.

La spesa sociale per la famiglia è sostanzialmente residuale. Laddove sarebbero urgenti politiche di sostegno e di promozione, politiche della casa, che aiutino le giovani coppie a trovarne una, politiche fiscali che riconoscano il carico dei figli, politiche dei servizi, che facciano del lavoro non l’idolo che schiaccia la famiglia, ma la risorsa che permette di crearne una, gli interventi si concentrano sui bisogni individuali di bambini, anziani, donne, disoccupati.

Si tendono a considerare “questioni” esclusivamente private – tranne che per le coppie omosessuali – gli aspetti legati alla generazione. Non si fa nulla per creare un “ambiente” favorevole allo svolgimento ottimale delle funzioni proprie alla famiglia, iniziando col riconoscerle il valore sociale che le compete, in vista di farne il soggetto centrale delle politiche sociali.

Le cause culturali della denatalità

L’ultima urgenza richiamata mette in rilievo che il problema è anche di carattere culturale.

In una società sempre più sazia e disperata, che non vede sbocchi per il futuro e nella quale le persone finiscono per vivere solo per se stesse, i motivi più profondi della denatalità si annidano in una mentalità deresponsabilizzante ed individualistica. Non si identifica più nelle responsabilità, ed in particolare in quelle familiari, un modello positivo. I giovani identificano piuttosto la propria realizzazione in una buona posizione lavorativa e nella carriera.

Lo rivela anche il linguaggio del politically correct che significativamente non dice: “Sosteniamo i giovani che vogliono sposarsi e che vogliono creare una famiglia”, ma: “Equipariamo le coppie omosessuali alla famiglia”.

Le scelte politiche di questi ultimi giorni drammaticamente confermano questa pesante discriminazione nei confronti della famiglia.

Clemente Sparaco

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