26/08/2013

Il patentino di non omofobia

–          E il patentino? –

–          Il patentino? –

–          Già. –

–          Quale patentino? –

L’impiegato allo sportello dell’Ufficio Scolastico mi guardò come fossi interdetto.

–          Vuole farlo sì o no il concorso a cattedra? –

–          Certo che lo voglio. –

–          E allora deve consegnarmi, oltre al modulo compilato e ai certificati, anche il Patentino di non omofobia. Ce l’ha sì o no? –

Fresco di studi letterari e relativa laurea, non mi ero tenuto troppo al corrente delle ultime novità in fatto di concorsi pubblici. Non ne sapevo niente di quel patentino, né della legge istitutiva. Mi era completamente sfuggito anche il dibattito in Parlamento. Che dico, perfino le solite diatribe sui giornali, Tizio a favore Caio contro. Disimpegnato, direte voi. Asociale … sì, me l’hanno già detto. Comunque sia, consultando la Gazzetta Ufficiale  scoprii che con un po’ di buona volontà avrei fatto in tempo a conseguirlo in tempo utile: la data in cui avrei potuto sostenere l’esame per il patentino era  giusto due giorni prima della scadenza dell’iscrizione al concorso.  Addio vacanza godereccia a Ibiza dunque, e sotto, nuovamente, a studiare! E mi ero appena cinto il capo di alloro! Ma forse ne valeva la pena.

La commissione era composta da tre persone. In mezzo sedeva il presidente: un uomo non giovane ma dal viso ancora bello, anche se con un che di fatuo nei lineamenti regolari e distinti. Vestiva di un finto-trasandato assai costoso: sotto il giubbino jeans di gran marca con fazzoletto sgargiante pendente dal taschino, una camicia blu scuro lievemente operata. Aveva capelli brizzolati dai riflessi azzurrini che scendevano – onda su onda – sulla fronte e sul collo. Mi rivolse subito un sorriso accattivante, cui si accompagnava uno sguardo dolce e un po’ sognante, quello sguardo che ogni candidato desidera trovare nel suo esaminatore.

Alla sua destra – stridente contrasto invero – sedeva un’anziana donna con un viso triangolare ricoperto da un fitto reticolo di rughe, capelli bianchi cortissimi e uno sguardo aguzzo e inquisitore che non prometteva niente di buono.

Infine dall’altro lato della cattedra era un uomo sulla cinquantina dal viso glabro e la frangia di capelli grigi incollati sulla fronte; sul lobo dilatato dell’orecchio sinistro luccicava un piccolo brillante. Indossava occhiali dalla sgargiante montatura rossa, lo stesso vivace colore della giacca attillata. A un primo sguardo pareva una commissione assai assortita, da non prendere sotto gamba, ma nel complesso potabile.

La donna canuta, dopo aver lentamente ricopiato su di una scheda i dati della mia carta di identità, posò lo sguardo su di me e lo mantenne a lungo, silenziosa.

–          E’ in grado di citarmi l’articolo 1 della Legge 201/2014? –  chiese infine con voce rauca, quasi maschile.

Quella legge ormai la conoscevo a memoria, così come tutta la pletora dei regolamenti attuativi. Con voce bassa ma sicura scandii:

–          “L’identità di genere prescinde dal sesso biologico  e coincide con la percezione che la persona ha di sé quale uomo o donna. Essa è in fieri durante l’intero ciclo psichico e biologico della persona.” –

–          E ora mi dica il terzo – gracchiò la donna, alzando la voce come se la mia risposta l’avesse indispettita.

–          “Ogni azione discriminatoria motivata dall’ identità di genere così come dall’ orientamento sessuale della vittima ….”

La donna attese senza battere ciglio che terminassi la risposta. Poi in silenzio, e con una certa teatralità, torse il viso verso l’altro commissario seduto al lato opposto della cattedra come a dirgli: per me è sufficiente, ora tocca a te.

Fu allora che il dio che presiede allo svolgimento degli esami di stato si distrasse e mi abbandonò al mio destino.

Il presidente, con il lodevole intento di “mettere a proprio agio il candidato” (come recitano le normative sulla conduzione degli esami) mi si rivolse col più accattivante dei sorrisi e il più amichevole dei toni.

–          Che aspetto sbattuto che ha, giovanotto. Guarda che occhiaie … giorno e notte sui libri, eh? Ma era il caso di preoccuparsi così? Siamo così tremendi?… –

Fu, a tradirmi, quella certa mancanza di autocontrollo che mi prende quando improvvisamente mi sento a mio agio; quel libero fluttuare di sensazioni e di pensieri che mi induce a dire la prima cosa che passa per la testa, senza filtro.

–          In effetti, presidente, sì, ho studiato come un negro. –

Un silenzio pregno di disagio calò improvviso nell’aula. Il commissario dal volto glabro sollevò di scatto la testa, che prima teneva china. La commissaria storse la bocca in un ghigno acido. Il presidente  manteneva il suo sorriso accattivante  parcheggiato sulle labbra, ma stemperato dall’ imbarazzo. Poi avvertii il brusio degli altri candidati seduti dietro di me ad aspettare il loro turno. Si può interpretare un brusio? A me sembrò all’inizio un’espressione di mero stupore, poi in qualche modo di maligno compiacimento.

L’uomo glabro  mi fissava. Ora, incrociandone lo sguardo, ebbi la sensazione di un’ intima ripulsa di quegli nei miei confronti, ripulsa che lessi sulle sue labbra improvvisamente contratte e nello sguardo fattosi più acuto. Fu allora che notai le sopracciglia scolpite al rasoio e l’abbronzatura dal colore un po’ falso tipica delle lunghe sedute sul lettino solare. Aveva una strana voce chioccia e melliflua.

–          Non ritiene di dover sorvegliare maggiormente il suo lessico? –

–          Era solo un modo di dire. – risposi con tono conciliante. E poi, Dio perdonami, non so davvero perché aggiunsi: – Io non c’entro con la tratta degli schiavi. Non ero nato. –

Adesso è facile dire che sono stato incosciente. In quel momento mi sembrava di aver solo celiato. Non volevo provocare nessuno. Una battuta, per sdrammatizzare …  Di scatto l’uomo si levò in piedi; con una mano si  era appoggiato al bordo della cattedra, e l’altra la teneva sollevata col ditino vibrante indirizzato al soffitto. La voce chioccia si era fatta più alta e più stridula.

–          Forse che L’Europa tutta non è solidalmente corresponsabile dell’immane tragedia del popolo nero? Forse che la sofferenza lancinante di milioni di donne e di uomini non pesa come un macigno sulla nostra storia comune? Abbiamo o non abbiamo divorato le risorse del continente africano, ponendo così le premesse di tutti i conflitti, di tutte le stragi, di tutte le ingiustizie sociali di quel continente?  Lei non può chiamarsi fuori dalla correità. Partecipe di questa civiltà europea che ha prosperato sul sangue altrui come prospera un vampiro famelico, lei è colpevole quanto lo sono io. Con l’aggravante che non ne vuole essere cosciente, mentre io mi sono caricato del fardello, ne avverto il peso, ne soffro! – Ciò declamato, si risedette con i segni di una nobile afflizione sul volto.

Sono un giovane nato negli anni ‘80, sono un pragmatico. Questa faccenda della mia personale responsabilità di tutte le nefandezze della storia non l’ho mai digerita. Anche quando me l’avevano propinata a scuola i miei prof (ed ero piccolo, un ragazzino) non mi aveva convinto … Questo dover chiedere scusa a tutti quelli che incontro per strada, a momenti …  scusami, fratello cinese, per quello che ti abbiamo fatto durante la rivolta dei boxers … scusami, fratello sudanese, per la presa di Karthoum … scusami, fratello amerindo, per l’uccisione di Montezuma … No. Sono certo disposto a pagare il conto per quello che ho fatto io. Di quello che ha fatto la cariatide del mio nonno volontario in Africa risponderà semmai lui (sempre che ne abbia voglia, rimbambito com’è). Se andava o meno con le sciarmutte, e quanti ne abbia fatti fuori, di nemici …  Comunque sia, non replicai al predicozzo: ne aveva già fatti guai la mia lingua svelta.

Intanto che stavo lì guardingo e la commissaria ghignava e il presidente col sorriso stampato sulle labbra si guardava attorno, l’uomo glabro aveva preso a disegnare su un foglio con le mani corte e grassocce. I suoi gesti erano febbrili.

–          Torniamo ora alla ragione per la quale lei è qui. Che cosa ho disegnato? – mi domandò facendo scorrere il foglio sul piano della cattedra verso di me.

Sul foglio era una figura umana fortemente stilizzata, simile a quelle che tracciano i bambini assai piccoli. Il capo rotondo era riccioluto. All’interno, due punti neri al posto degli occhi, un buffo naso a punta e una riga orizzontale come bocca. Sotto il collo filiforme iniziava una veste che si allargava progressivamente verso il basso. Dal bordo inferiore di questa fuoriuscivano due righe parallele che, piegandosi all’esterno ad angolo retto, rappresentavano rispettivamente le gambe e i piedi. Anche le braccia erano righe, al termine delle quali alcuni brevi tratti a raggiera rappresentavano le dita delle mani.

–          Vedo l’immagine stilizzata di una ragazza. – risposi.

–          Ahah! – sbottò compiaciuto l’uomo glabro.

–          Ahah! – fece eco la donna canuta.

–          Eh no, no, no … – intervenne il presidente con un’espressione dolcemente allarmata, facendo oscillare l’indice di fronte al suo naso. Decisamente il test del disegno doveva essere stato già somministrato a numerosi candidati.

Sbottò ancora il commissario, di nuovo alterandosi.

–          No! No! No! Non è affatto così! –

Ora la voce chioccia era diventata irosa. Ad ogni no! l’uomo batteva entrambi i pugni sulla cattedra; ma senza energia, con un gesto floscio e stizzito.

–          Da che cosa ha arguito, lei, che trattasi della rappresentazione di una ragazza? –

–          Mah … dalla veste, naturalmente … –

–          Ecco, lo sapevo! Avete visto? – e col capo faceva degli ampi cenni d’intesa agli altri membri della commissione.  La donna canuta, ora, non si peritava di ridere forte e di gusto, a gola spiegata, come se io avessi detto una manifesta sciocchezza. Il presidente, che si era sforzato finché aveva potuto di dimostrarmi benevolenza, ora aveva indossato un’aria afflitta e rassegnata e cercava alle mie spalle lo sguardo degli altri candidati, come a dire: ma lo sentite? Che posso farci io? E intanto l’uomo glabro imperversava, agitando le manine le cui dita cicciose frullavano per aria:

–          Lei è ora un libro aperto, per me! Così come è offensiva la sua indifferenza per le nostre responsabilità storiche, altrettanto offensivo è questo suo essere legato a schemi sessisti! Lei è qui per il patentino? E crede di meritarselo perché ha imparato gli articoli della legge a memoria? E’ lo spirito della legge che deve comprendere, che deve far suo! E questo spirito le deve parlare di una sessualità non schematica, ma libera, creativa!  Perché mai un uomo non potrebbe desiderare di indossare un vestito da donna e, che so, di osservarsi allo specchio? –

–          Perché gli farebbe schifo. Sempre che fosse davvero un uomo. – risposi guardandolo fisso con decisione.

E stavolta la lingua non aveva preceduto il cervello: aveva detto esattamente quello che volevo farle dire.

***

So che ora vi chiederete: perché hai deliberatamente urtato quell’uomo, il cui ruolo effettivo era con evidenza tale da condizionare la decisione della commissione, assai più di quello del presidente-comparsa? Potevi ancora giocartela: ammettere gli sbagli, riconoscere una certa tua superficialità, spiattellare ancora un paio di articoli di legge … e poi la stanchezza, le notti insonni che ti avevano logorato e fatto dire ciò che non pensavi … Il patentino di non omofobia – inutile dirlo –  non te l’hanno dato. Dovrai aspettare un anno per rifare l’esame, e  non potrai affrontare a breve il concorso cui tenevi …

***

Ecco, rispondo.  Sono nato alla fine degli anni ’80, sono un pragmatico. Non ho mai fatto grandi riflessioni personali sui temi fondanti della filosofia e della vita. Sono passato dal pensiero debole alla società liquida. Di tutto ciò, io sono un riflesso, una conseguenza. Un epifenomeno, direbbe qualche mio professorone dell’università. Passo su internet parte della mia giornata. A scuola, studiavo per conseguire il diploma; all’università, la laurea. Capivo le cose, prendevo i voti. Non si cerchino dentro di me troppi valori non negoziabili. Sono un pragmatico, dicevo.

Però, però, però. Non ho simpatia per chi cerca di insegnarmi come devo pensare.  Se poi lo fa in nome della libertà e della tolleranza, come quei bei tomi della commissione, ecco: questo  mi sembra il massimo dell’ipocrisia.

E infine, che volete, da questo mio nonno che si faceva le sciarmutte e che inchiodò i mahratta davanti alle dune di Bir el Gobi, avrò pure ereditato qualcosa.

Racconto di Alfonso Indelicato

Blu-Dental

 

 

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