22/07/2017

La famiglia sotto l’attacco del «dispotismo commerciale»

C’è una dottrina che impone di adattare ogni aspetto della vita – a cominciare dalla famiglia e dalla politica – alle esigenze del commercio, e che è anche il succo, se vogliamo, delle ideologie che contrastano la famiglia.

È risaputo che le élite progressiste – dal ministro Giannini a Macron – esaltano la filosofia del mobilitarismo, quell’ideologia che prevede la mobilità obbligatoria e generalizzata (geografica e professionale) delle persone. Non sfugge a nessuno che una tale ideologia per realizzarsi richiede una rivoluzione culturale permanente in grado di sradicare la persone da ogni appartenenza troppo vincolante, a partire dai legami che si creano in famiglia.

Gilbert Keith Chesterton ha previsto con largo anticipo i pericoli di una simile ideologia, denominata dallo scrittore londinese come la dottrina del «dispotismo commerciale».

In epoca moderna, osserva GKC, si è diffusa una moda letteraria impegnata ad esaltare il business come misura di tutte le cose. Da qui è discesa una certa visione del mondo impegnata a decantare il fascino degli affari, della finanza, dove l’avidità non è più un vizio quanto una virtù di successo.

Per alcuni plutocrati la civiltà deve basarsi unicamente sul commercio, pertanto può fare tranquillamente a meno di orpelli come la democrazia e la famiglia.

I riflessi di una tale euforia conducono direttamente a un nuovo cesarismo: la tirannia dello specialismo, che oggi chiameremmo tecnocrazia. Questa nuova tirannide nutre un deciso disprezzo per l’uguaglianza degli uomini davanti alla legge, ossia per tutto ciò che rappresenta il cameratismo, la fratellanza tra pari, l’amicizia.

Ogni specialismo tecnico, come tutto ciò che è mosso – o dice di esserlo – da inderogabili esigenze pratiche, implica un certo grado di autoritarismo.

Nel momento in cui scoppia un incendio non si può convocare un comitato. Sono le circostanze stesse a imporre di chiamare in fretta i pompieri. Non c’è tempo per discutere.

La tecnica circoscrive il regno dello spirito pratico, che mal si concilia coi i tempi pazienti e dilatati della conversazione. Per questa ragione, in un ordine tecnocratico, sono inevitabili il disciplinamento e una rigida gerarchizzazione.

La civiltà del business, come regno dello spirito pratico o spirito di economia, è ostile a ogni forma di amicizia tra gli uomini, così come mal tollera gli affetti forti e leali maturati in famiglia. Gli affari sono affari e vanno sbrigati, perciò ci si rivolge a un Cesare.

Nella tirannia dello spirito economico Chesterton vedeva una «nuova gigantesca eresia, che modifica l’anima umana per adattarla alle proprie condizioni, invece di modificare le condizioni umane per adattarle all’anima umana».

Oggi infatti la tendenza dominante impone di vivere per lavorare invece che lavorare per vivere.

È precisamente la trasformazione propiziata dal dispotismo commerciale e così ben descritta da Michel Houellebecq nel suo romanzo La carta e il territorio: «Che cosa definisce un uomo? Qual è la prima domanda che si pone a un uomo, quando ci si vuole informare della sua condizione? In alcune società, gli si chiede dapprima se sia sposato, se abbia dei figli; nelle nostre società, ci si interroga in primo luogo sulla sua professione. È il suo posto nel processo di produzione, e non il suo status di riproduttore, a definire innanzitutto l’uomo occidentale».

Per riconquistare alla famiglia e all’amicizia quello spazio che rende umana una società, occorre dunque contrastare questa inversione tra mezzo e fine, la caratteristica più saliente, diceva Simone Weil, di ogni forma di oppressione sociale.

Andreas Hofer


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