03/10/2017

La fine del diritto naturale e le fabbriche di bambini

Quando si parla di relativismo e si analizza la situazione attuale non si può avere un pensiero particolare per i bambini, vere e proprie vittime di questo sistema che ha dimenticato il diritto naturale... 

Sin dall’antichità, non solo da parte della Chiesa, si è distinto il diritto positivo – elaborato dall’uomo – da quello naturale. Il Catechismo definisce la legge morale naturale come l’espressione dei principi immutabili di giustizia posti da Dio nel cuore di ogni uomo secondo l’ordine razionale del Creato.

Il diritto positivo è conforme a giustizia solo se ispirato dal diritto naturale, la qual cosa non è però scontata, poiché l’uomo – per effetto del peccato – non sempre lo riconosce. Ne consegue che non debbono essere osservate le leggi che violano i principi morali.

Uno degli effetti dell’imperante relativismo culturale ha portato la maggioranza dei giuristi contemporanei a trascurare lo studio del diritto naturale ed a riconoscere dignità giuridica solo a quello positivo.

Si tratta, però, di una convinzione profondamente errata e, per rendersene conto, è sufficiente considerare i processi celebrati ai criminali nazisti.

Infatti, chi sostiene l’inesistenza o comunque l’irrilevanza del diritto naturale, non considera che – se ciò fosse vero – molti di quegli aguzzini sarebbero stati puniti ingiustamente, dato che vennero giudicati per condotte conformi alle norme vigenti nella Germania nazista e dunque al diritto positivo di quello Stato.

La questione non riguarda, però, solo il passato, ma la consapevolezza che le norme giuridiche sono legittime solo se coerenti con i principi della legge morale è di fondamentale importanza per giudicare la produzione legislativa contemporanea.

Invero, negando l’esistenza della legge naturale, tutto il diritto si ridurrebbe ad un compromesso tra le classi ed i gruppi sociali in un dato momento storico. Conseguentemente nessuna carta dei diritti dell’uomo esprimerebbe principi davvero intangibili e l’uguaglianza tra le varie razze, la parità tra uomo e donna, le libertà di pensiero, di religione, di associazione, ecc. sarebbero destinate a perdere il loro carattere “universale” nel caso non venissero più condivise dalla maggioranza dei consociati.

La produzione giuridica è davvero al servizio dell’uomo solo se è conforme alla Verità trascendente: se si perde questa consapevolezza si dischiudono le porte all’ingiustizia con modalità che, per quanto qui interessa, si traducono nella sempre più accentuata riduzione dell’uomo da “persona” a “cosa”, come sta attualmente accadendo con la regolamentazione delle discipline bioetiche.

Con specifico riguardo alle tematiche della procreazione, per comprendere appieno il fenomeno, occorre risalire agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, quando fu messa a punto la pillola anticoncenzionale, che è stata alla base di un mutamento antropologico epocale da cui sono scaturite gravi violazioni della morale naturale da parte delle leggi degli Stati.

La donna adulta e sana, fino a quel momento, era permanentemente fertile, tranne nei periodi stabiliti dal ciclo naturale. Ora, assumendo un farmaco, poteva decidere quando essere feconda.

Le forti pressioni di lobbies farmaceutiche, attratte dagli ingenti guadagni, portarono alla liberalizzazione delle pratiche anticoncezionali, fino ad allora soggette a restrizioni legislative.

Il sesso, da attività aperta alla procreazione, divenne per molti una mera attività “giocosa” non necessariamente connessa a vincoli sentimentali, bastando un poco di attenzione per ridurre la possibilità di gravidanze inattese.

Da altro lato, il rapido evolversi di un contesto culturale occidenta- le anticristiano ha promosso, negli anni seguenti, lo sviluppo delle legislazioni divorziste, con l’inevitabile progressiva disgregazione delle famiglie e la crisi dello stesso istituto matrimoniale, complici anche normative che hanno sempre più parificato le convivenze al matrimonio.

In tale clima l’aborto, che nella maggior parte degli Stati era punito dalle leggi penali, è divenuto sempre più tollerato ed oggi lo si vorrebbe addirittura riconoscere come un diritto fondamentale per la cosiddetta salute riproduttiva della donna.

Lo sviluppo di una ricerca scientifica libera da ogni vincolo morale ha poi consentito, nel 1978, la nascita del primo “figlio in provetta”, come si diceva allora.

L’evento fu presentato come assai positivo, ma in realtà non fu così, se non altro perché la fecondazione in vitro presuppone l’accettazione dell’aborto, in quanto – per ogni bambino nato – molti embrioni sono inevitabilmente destinati alla morte.

L’affinarsi delle tecniche biomediche ha dunque fatto sì che, ai fini del concepimento, non è più necessaria l’unione di un uomo e di una donna, potendo essere sostituita dall’incontro dei gameti con modalità alternative a quelle previste dalla natura.

Questa consapevolezza e le conseguenti prospettive di profitto delle cliniche specializzate hanno stimolato l’elaborazione di leggi che disciplinano la fecondazione assistita (come ora si chiama: ma resta sempre “fecondazione artificiale”) non solo in favore delle coppie eterosessuali sterili (sposate o meno), ma anche di quelle omosessuali, da molti Stati equiparate alle prime.

Si tratta di normative che in realtà legittimano pratiche fondate sul mercimonio di ovuli e di persone.

Come è noto, la fecondazione artificiale può essere omologa (se i gameti appartengono alla stessa coppia) o eterologa (se uno o entrambi i gameti provengono da estranei).

La forma più estrema di fecondazione eterologa è la pratica dell’utero in affitto o maternità surrogata, con la quale una donna porta avanti la gravidanza per conto di altri.

Molto spesso si tratta di donne che vivono in paesi poveri e che, in cambio di compensi miserevoli, espongono la loro salute fisica e psichica a gravi rischi.

Il mercimonio riguarda anche i gameti, in particolare quelli femminili, essendovi chi, sempre per denaro, si sottopone a devastanti bombardamenti ormonali ai fini della produzione massiva di ovuli.

Tutto questo alimenta un notevole giro d’affari, poiché la fecondazione artificiale – quando non dispensata dalla sanità pubblica – viene comunque fruita da coppie benestanti che possono pagare ingenti somme e che, non di rado, scelgono i caratteri del nascituro consultando appositi cataloghi, quasi il figlio desiderato fosse un “oggetto” che si ordina e si produce come una qualsiasi merce.

Addirittura, nel caso dell’utero in affitto, la donna che si presta per la gravidanza (ed alla quale verrà sottratto il bambino subito dopo il parto) sottoscrive un contratto con cui si impegna ad abortire ovvero a tenere per sé il neonato qualora il feto presentasse malformazioni.

Si tratta di una pratica gravemente lesiva della dignità della persona che, mutatis mutandis, evoca tipologie contrattuali simili a quelle utilizzate per il bestiame.

Ma al peggio non vi è limite.

Il desiderio di superare i pericoli della gravidanza ed i vincoli della natura stimola ricerche orientate verso la creazione dell’utero artificiale.

Se avranno successo, la gestazione sarà definitivamente digiunta dal ventre materno, cosa che potrebbe portare alla creazione di vere e proprie fabbriche di neonati per soddisfare i desideri di coppie o singoli, verosimilmente in un contesto eugenetico (vale a dire di “perfezionamento” della specie), così come gli stessi Stati potrebbero ricorrere alle nuove tecniche per “produrre” bambini, magari con la finalità di compensare l’eccesso di popolazione anziana dovuta ad eventuali squilibri demografici.

Gian Paolo Babini

Fonte: Notizie ProVita, maggio 2015, pp. 26-27


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