22/03/2013

La Vita è femmina

Prima d’essere investiti tutti dalla consueta ondata di retorica femminile e femminista, cui anche le nostre stesse splendide donne sono da un bel pezzo rassegnate, separando la pula dal loglio, fermiamoci un attimino a riflettere sull’ennesimo neologismo che certa cultura è riuscita a concepire: “femminicidio”. Parola orrenda, bestiale, obbligata. Obbligata perché oggi come oggi ha poco senso parlare di uxoricidio, sia perché le donne uccise sono sempre meno mogli e sempre più spesso ex mogli, conviventi, amanti, fidanzate ed assimilate; sia perché nel contesto culturale da cui proviene il lemma “femminicidio” l’esser moglie è solo una delle numerose ipotesi (e tutte equivalenti) che si aprono nella vita di una donna.

Parola bestiale, perché la donna è ridotta a quel minimo che ha in comune con gli animali: l’esser femmina. Attenzione, esiste un altro caso di soppressione di una specifica categoria di esseri umani: l’infanticidio. Ma osserviamo meglio: nella parola stessa “infanticidio” viene preservato un carattere proprio ed esclusivo dell’Uomo, il poter parlare. L’infante è colui che non può (ancora) parlare, dunque l’infanticidio è l’uccisione dell’Uomo quando è ancora in età tale da non poter parlare (sia in senso letterale, di non essere capace di articolare parole e discorsi, sia in senso più ampio di rapporto adeguato con gli altri esseri umani). Non esiste la parola “prolicidio” (e forse oggi qualcuno sarebbe capace di coniarla e riferirla all’Uomo) perché chiaro deve essere che l’essere vivente ucciso è un essere umano, una creatura unica ed irripetibile, e non un cucciolo di una qualsiasi specie. Nello ”infanticidio” io posso vedere un essere umano, nel “femminicidio” no.

Parola orrenda, in primis perché descrive la soppressione di un essere umano che per sua natura, nella dinamica violenta in cui l’omicidio matura, è parte debole, è fisicamente debole. Ma è parola orrenda perché se davvero va coniata la categoria del femminicidio, allora la dobbiamo estendere con orrore a tutti quegli esseri umani di sesso femminile che quotidianamente vengono uccisi; e qui s’accende la rivolta di quelle stesse persone che del femminicidio quale istanza culturale (prima ancora che etica e giuridica, attenzione) fanno programma. Ci sono embrioni femmina, feti femmina, persino morule femmina e sono tutti esseri umani, individui della nostra specie, che vengono distrutti – anzi, uccisi – a milioni ogni anno.
Vengono uccisi per volere di altre femmine, o per volere di maschi e femmine, che hanno il vantaggio d’essere più sviluppati e di poter decidere per loro.
Vengono uccise perchè fuori posto, malate, perché “piovute dal cielo” in un progetto di vita diverso, perché concepite in una tresca.
Vengono uccise, queste piccole femmine, spesso proprio perché sono femmine: e non pensiamo solo ad India e Cina col disgustoso costume dell’aborto selettivo o della soppressione delle neonate, pensiamo anche a quelle cliniche per la fecondazione artificiale ove viene praticata (lecita o no che sia) la selezione degli embrioni in base al sesso per cui i concepiti maschio vengono avviati all’impianto mentre alle femmine non viene neppure riservata la speranza d’essere congelate per poter magari un domani essere impiantate.
Le prime vittime in termini numerici della soppressione della vita prenatale sono le femmine. A quei femminicidi, ci pensiamo mai? No.

No, perché l’idea di donna e di femmina pare appartenere a qualcuno, ad una sorta di accademia che sta in piedi da qualche decennio e si è arrogata il diritto di decidere chi sia femmina e chi no. Perciò la distruzione delle femmine concepite… “che c’entra”? Anzi, guai a parlar male dell’aborto l’otto marzo, giorno che dovrebbe celebrare proprio l’affermazione o comunque la vigorosa istanza del modello femminile che quell’accademia propugna e che vede nell’aborto una affermazione della femmina. Mitologia, questa, e nulla più: perché chi vive ogni giorno o anche solo per un momento, il tempo di una breve e sincera chiacchierata, la reale orrenda e bestiale e talvolta obbligata vicenda dell’aborto, capisce che il vero femminicidio è quello.
E’ quello perché priva la donna non del suo essere animale femmina, ma di un’espressione tangibile e vera della propria femminilità: una donna potrà essere un eccellente scienziato come un uomo, un manager o un artista esattamente come un uomo; ma un uomo non potrà mai esser madre (almeno secondo natura…).
E’ chiaro che non è la maternità intesa come fenomeno biologico il solo specifico della dimensione femminile, ma è altrettanto chiaro che l’aborto la distrugge e la reprime. Pertanto, se non vogliamo ridurre la donna ad animale femmina, dobbiamo prendere atto che la forma più devastante di femminicidio è proprio il distruggerne la maternità che – ricordiamocelo, emancipandoci anche qui da certa mitologia – non è solo il processo biologico di sviluppo del figlio in utero, non è solo la gravidanza, ma è anche e soprattutto una relazione che già allora muove le corde più profonde della donna e del bimbo, e che li segna per sempre, comunque vadano le cose.

Per questo, ricordiamocelo tutti e tutte. Ricordiamocelo, che per una donna vivere non è solo campare, ma la possibilità viva d’amare qualcuno; negare e negarsi quella possibilità è il vero solo femminicidio. E’ quello che noi dobbiamo proteggere: quell’amore speciale, che è roba da donne, non da femmine.

di Massimo Micaletti

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