13/02/2018

Lavoro, si cambia? Tra famiglia, salute ed economia

Il lavoro riempie la vita di moltissime persone, nel mondo industrializzato.

E il lavoro, sempre più, finisce per condizionare in maniera importante le scelte di vita: si rimanda il matrimonio a quando si ha un lavoro; si procrastina l’arrivo di un figlio in attesa del posto fisso, oppure non lo si fa per la paura – nelle donne – di essere licenziate o perché questo impedirà di fare carriera; si cambia città per aumentare le possibilità di avere un lavoro, o per migliorare la propria posizione; si rinuncia alle domeniche in famiglia perché ormai il lavoro è sempre più 7 giorni su 7; si lavora tutta la vita, in attesa di una pensione che chissà se verrà; ci si impegna tutto l’anno per guadagnare i soldi per fare due settimane di ferie... e via di questo passo.

Il lavoro è insomma sempre più il centro della vita. Ma è giusto, tutto questo?

Nel rispondere occorre fare due distinzioni preliminari.

Innanzitutto è importate chiarire che è vero che il lavoro nobilita l’uomo, ma che questo si verifica solo in un corretto bilanciamento tra l’aspetto materiale e quello “spirituale”, più interno: «Ora et labora», come diceva S. Benedetto. Ogni cosa ha il proprio tempo, senza eccessi dall’una e dall’altra parte: l’ozio è sbagliato tanto quanto lo stacanovismo.

In secondo luogo è doveroso fare una distinzione tra i due sessi, anche se – di questi tempi – la cosa non sarà apprezzata dai più. Eppure, oltre che sotto il profilo fisico, psicologicamente parlando l’uomo ha molto più bisogno di trovare una realizzazione sotto l’aspetto lavorativo rispetto alla donna, che invece trova maggiore gratificazione nelle azioni di cura e di accoglienza. In termini generali, è così. Negare questa differenza non paga, come vediamo: gli uomini costretti a fare i “mammi” e le donne “manager” solitamente non rispecchiano l’ideale massimo di felicità.

Quanto si lavora nel mondo?

Chiarito questo, veniamo all’oggi. In Italia la media di ore settimanali lavorate è pari a 40, che “scendono” a 36 per gli impiegati. Otto ore al giorno, ossia un terzo della giornata, cui solitamente va a sommarsi circa un’ora necessaria per lo spostamento e un’ora di pausa pranzo: si arriva a dieci ore, circa. Calcolato che otto ore “servirebbero” per dormire, alle persone rimangono in media sei ore al giorno da suddividere tra: famiglia, cura di sé, gestione della casa, riunioni varie (dalla scuola, al condominio), relazioni esterne, attività di volontariato... insomma, una miseria. E il risultato è che le persone sono mediamente sempre di corsa, stressate, insoddisfatte e... stanche. Il che non aiuta a essere pronti e a rendere sul lavoro, naturalmente. Si tratta di un circolo vizioso: è il gatto che si morde la coda.

Di fronte a tutto questo, sono diversi i Paesi che – soprattutto al nord – tendono a ridurre gli orari di lavoro settimanali: in Olanda, per esempio, la settimana lavorativa è di quattro giorni, che corrisponde a un monte di 29 ore circa; in Norvegia (che vanta 43 settimane di congedo parentale) e in Danimarca si lavora invece 33 ore a settimana, mentre in Francia e in Belgio ci si attesta sulle 35 ore... e, la notizia è recente, il settore metalmeccanico tedesco – dove l’orario è di 35 ore a settimana – ha appena firmato un contratto che – scrive Il Fatto Quotidiano – «consente ai dipendenti che devono occuparsi di un bambino e di un parente malato di chiedere la riduzione dell’orario a 28 ore per un periodo di tempo che va dai 6 mesi ai 2 anni, dopo il quale si tornerà al regime delle 35 ore».

Insomma, a conti fatti l’Italia è uno tra i Paesi dove si lavora (sempre) di più. 

Lavorare meno: quali vantaggi?

Ma quali sono i vantaggi di lavorare meno?

Innanzitutto, soprattutto per le donne, questo consente di potersi occupare di più della famiglia. Si ha poi un beneficio sulla salute, in virtù della riduzione dei livelli di stress e di stanchezza e dell’aumento delle relazioni interpersonali. Sotto il profilo strettamente lavorativo, poi, avere persone meno stressate e stanche dovrebbe portare a un aumento della produttività oraria. Infine, l’aspetto economico e sociale: se è pur vero che, riducendo gli orari, si presenta la necessità di assumere più persone (ma non così tante, considerato il probabile aumento di produttività), è altresì vero che questo porterebbe alla creazione di nuovi posto lavoro. Inoltre, non meno importante, avere più personale – suddiviso tra i due sessi – consentirebbe anche ai datori di lavoro di poter riservare un trattamento più vantaggioso (e rispettoso!) alle donne in maternità e con figli piccoli, con un congedo più lungo al momento della nascita e per i primi due anni dei bambini, una maggiore flessibilità oraria e – perché no? – laddove vi fossero lavori che lo consentono, anche una gestione autonoma del lavoro da parte della donna, che non avrebbe più un vincolo orario, ma un vincolo di produttività: se si riesce a concludere il proprio lavoro quotidiano in poco tempo, ben venga, e si è libere di fare altro.

Insomma, anche nel settore del lavoro si stanno facendo dei passi indietro, pur nella consapevolezza che la situazione attuale è divenuta – per molti – insostenibile. 

Teresa Moro


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