11/04/2016

Matrimonio gay: per il Tribunale di Roma “non s’ha da fare”

In Italia il cosiddetto “matrimonio” gay non si può fare, perché le leggi vigenti non lo consentono. Con buona pace degli ideologi LGBT e dei loro servi.

A dirlo è il Tribunale civile di Roma, che ha rigettato il ricorso di due donne che, sposatesi in Portogallo, avevano poi chiesto al giudice la trascrizione del loro “matrimonio” nei registri dello stato civile del Comune. Si tratta dunque della sconfessione, già fatta dal Tar e dal Consiglio di Stato, della scelta alquanto clownesca dell’ex sindaco Ignazio Marino, che aveva trascritto alcuni pseudo-matrimoni di coppie gay celebrati all’estero.

Leggiamo da Repubblica che secondo Franca Mangano, presidente del Tribunale, non esiste una norma che consenta la trascrizione dei “matrimoni” tra omosessuali. Pertanto, il potere giudiziario non può decidere in assenza di un vuoto normativo o sostituirsi al legislatore.

«Non può essere colmato per via giudiziaria – scrive la dottoressa Mangano – il vuoto normativo conseguente alla inerzia del legislatore italiano (rilevata dalla Corte di Strasburgo con la pronuncia del 21 luglio 2015), il quale ancora non si è adeguato alle plurime indicazioni dei giudici nazionali, della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e anche del Parlamento Europeo». «L’eventuale equiparazione dei matrimoni omosessuali a quelli celebrati tra persone di sesso diverso – sottolinea il magistrato – e la relativa trascrizione nei registri dello stato civile rientrano nella competenza esclusiva del legislatore nazionale, cui questo giudice non potrebbe comunque sostituirsi».

Certo, il giudice sembra denunciare la presunta arretratezza italiana sul tema. Però almeno riconosce il principio costituzionale della divisione dei poteri e non pretende di dettar legge. Sarà per questo che Repubblica e gli altri media asserviti al potere non danno molta rilevanza a questa sentenza o la usano per influire sul Parlamento affinché si sbrighi a farci entrare nel III Millennio...

«Il tribunale civile di Roma – ha commentato l’avvocato Luciano Vinci, difensore delle due donne – ha preferito irrigidirsi su una lettura letterale della norma, non si è andati oltre la lettura letterale della norma (art. 107 C.c.) che fa espresso riferimento a “marito” e “moglie” nella celebrazione del matrimonio». «Abbiamo proposto – ha continuato – al giudice un’interpretazione costituzionale riferendoci all’articolo 3 Cost. secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Inoltre, se è vero che nel nostro ordinamento il matrimonio omosessuale non è previsto, è altrettanto vero che non è vietato. Il giudice avrebbe potuto lavorare in questa dimensione non scritta e creare giurisprudenza anche alla luce dell’orientamento sovranazionale che ha bacchettato l’Italia per la disparità che impone ai suoi cittadini. Faremo ricorso in Appello».

Secondo Vinci «assistiamo a una discriminazione nella discriminazione. La prima è quella dell’omosessuale nei confronti dell’eterosessuale. La seconda (visto che la legge consente il matrimonio di chi ha cambiato legalmente il sesso), dell’omosessuale nei confronti dell’omosessuale che ha scelto di cambiare sesso, e che può sposarsi tranquillamente».

Di fatto, in assenza di una legge, i tribunali interpretano la normativa vigente ognuno a modo suo.

Tempestivo (ne sentivamo davvero il bisogno...) il commento di Ivan Scalfarotto, sottosegretario al ministero delle Riforme: «Ormai è fuori discussione, la legge si porta a casa, considerando i decreti attuativi, sarà in vigore entro l’anno. E dall’inizio del 2017 questo problema non ci sarà più: i matrimoni contratti all’estero saranno riconosciuti come unioni civili in Italia». «La civiltà giuridica del Paese – aggiunge – deve esser fatta con leggi oltre che con le sentenze. Con sentenze che applichino le leggi».

Vedremo come andranno le cose. Intanto la battaglia alla Camera, in cui ProVita è assai impegnata (vedi qui e qui), va avanti.

Redazione

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