25/02/2014

... perché non genitrice 1 e genitrice 2? Maschilismo?

Dopo l’ennesimo pasticcio di questi giorni sulla vicenda genitore 1 e genitore 2, emerso da una “leggerezza” (come l’INPS ha dichiarato ad Avvenire) con riferimento al modello AP70, relativo alla presentazione della domanda per l’ottenimento dell’invalidità civile in caso di minore età, ovvero per la quale si renda necessaria la dichiarazione dei genitori, ho intravisto all’orizzonte un disegno estremo e assai confuso. Sono stata improvvisamente assalita da un atroce dubbio esistenziale: non sarà che non sappiamo più scrivere o parlare? Perché, se si tratta di sostituire i termini “padre” e “madre” con delle espressioni più neutrali, per non dire (illusoriamente) egualitarie, lingua vorrebbe che lo facessimo con “genitore” e “genitrice”. Ma, come tutti sappiamo, ormai, la battaglia di Genere va ben oltre questo e mira chiaramente alla totale e definitiva cancellazione di tutto ciò che rappresenta, somiglia o s’ispira, a maschile e femminile che, a cominciare dagli articoli (il, lo, la, il, gli, le) che abbiamo imparato – evidentemente male – alle scuole elementari, stando al progresso del più moderno “orientamento”, suggerito dalle “teorie di genere”, dovrebbe donarci una sorta di redenzione anche verbale.
Fatto sta che mi chiedevo se, a questo punto, non esisteranno più il gallo e la gallina, ma soltanto il gallo 1 e il gallo 2, come “si chiamerà” il pulcino? Di che genere sarà? E chi lo decide? Magari la coppia lesbica di mamme che incoraggia il figlio undicenne a sentirsi quello che non è? Oppure anche i figli li chiameremo da subito figlio 1 e figlio 2? E i nonni? Nonno 1 e nonno 2? E gli zii, i cugini, i nipoti? E perché non usare il femminile, invece del maschile, e assumere a neutro ed egualitario “genitrice 1 e 2”, anziché “genitore 1 e 2”? Come l’abbiamo fatta questa scelta? Buffo che le donne si battano per poter vedere assegnato ai propri figli il cognome materno (che a questo punto è di per sé un’evidente contraddizione in termini, se siamo paradossalmente d’accordo sul fatto che si possa fare a meno di “padre” e “madre”) e non per essere elette a neutra sintesi verbale per l’uguaglianza psichico-fisica della nostra civiltà. Le femministe, sagaci partigiane della difesa dei diritti in rosa, dovrebbero fare una rivoluzione solo per l’imposizione di una scelta verbale, tanto netta quanto chiara, al punto da negare alle donne la più elementare verità che tanto hanno difeso e intendono salvaguardare, e invece come mai non è successo niente e tutto tace?
Tutto sommato, pensavo, potremmo rimettere mano anche ai nomi propri di persona: se posso scegliere un “orientamento”, potrò scegliere anche un nome. In fondo, già si fa, basta estendere questa facoltà a una normativa vigente uguale per tutti ed eleggere lo Stato ad autorità morale ed ecco che, per legge, potrò anche chiamarmi Ugo, Matteo, Filippo, Peppino o, ancora meglio, chiamare una figlia Ivano (tanto da grande potrà scegliere cosa diventare). Però, c’è un problema pure in questo caso: aboliamo “padre” e “madre” per elevare la neutralità dell’identità sessuale a un orientamento soggettivo e poi che facciamo? Consentiamo a due persone, faticosamente divenute “uguali” di fronte a un modulo e allo Stato, di cadere di nuovo nel tranello della scelta del nome maschile o femminile? Per non parlare poi di quello che diremo a una figlia, chiamata Ivano, alla quale in fondo spiegheremo delle cose che, secondo me, per natura non capirà.
Tutto questo per dire che, alla fin delle fiere, abbiamo una verità scritta nel cuore che non possiamo rinnegare. “Quello” o “quella”, per restare in confusione, è ciò che prevarrà.

di Giorgia Petrini

Festini

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