21/03/2017

Ragazzi del nuovo millennio: «Siamo figli di una generazione morta»

«Questo mondo non è per noi», «Siamo figli di una generazione morta». In pochi mesi 130 ragazzi si sono tolti volontariamente la vita seguendo le regole di Blue Whale, un horror-game russo che, insieme ad altri giochi online simili, sembra stia raccogliendo adepti anche in Italia.

Lo scopo è il suicidio, un traguardo raggiungibile attraverso cinquanta tappe giornaliere autolesioniste, da superare e testimoniare sul web con scatti da condividere, l’ultima delle quali ordina di trovare l’edificio più alto e saltare. Le indagini aperte sul caso stanno rivelando un gran numero di “club dei suicidi”, uscite d’emergenza per vite stanche il cui senso è perduto, che trovano nel suicidio l’inganno risolutivo alla loro sofferenza, ai problemi e al silenzio assordante, pesante e padrone.

Ingenuità assurda sì, ma per chi?  

Fin troppo spesso la società che abitiamo impone un veto sulla morte intesa come momento-destino universale, come compimento. L’alternativa succulenta è barricarsi dall’idea del decesso come dato di fatto accidentale e non-programmabile, per farsi carico di un’eterna giovinezza, quello stile di vita abile ad assecondare desideri, pianificazioni e poco aperto all’accidente imprevedibile, sgradevole. Disdegnare il termine ultimo della nostra natura è l’ostinazione a perpetrare l’illusione di esserci creati onnipotenti, un concetto che cozza profondamente con il costante venir meno della nostra perfezione. Il suicidio (non solo tra i giovani) è divenuto un fatto di cronaca nera al quale purtroppo ci stiamo abituando: ogniqualvolta se ne sente notizia l’istinto ci attanaglia dapprima in un profondo rammarico e successivamente nell’inconscia e, forse ingestibile, tendenza a pensare noi stessi, esterni ai fatti, come potenziali salvatori di quella persona e della sua libertà che, a torto, coloro i quali cercano supporto legittimo-giustificativo a questo coraggio, citano come pienamente compiuta ed espressa. Prendere atto di questo colpo di petto che la tragicità suscita appena giunge nelle nostre case, è un sintomo chiaro del disagio comportamentale e concettuale che vige attorno al morire quando si tratta di porlo in atto piuttosto che subirlo, ovvero quando esce dal naturale per entrare nel nostro dominio.

Senza soffermarsi sul contesto specifico di Blue Whale, comprensivo di numerosissime ramificazioni e intrecci fitti e personali, si può affermare in termini generali che sempre, evidentemente, azioni estreme sono portavoce di un background soggettivo pericolosamente vulnerabile e sofferente. La figurazione del travaglio che ha condotto sino al suicidio è una solitudine disarmante e l’insopportabile mancanza del necessario. Per noi spettatori non è indispensabile colpevolizzare, ciò che si prospetta come urgente è il pensiero che al mondo vi erano possibilità d’amore disponibili, vi sarebbero state.

Emerge il contraddittorio fra il vociare altruistico che rimanda all’essenza dello spirito comunitario e il sostegno concreto che si pone dinanzi al malato, alla sofferenza/dolore e alla morte dovuta a mancanza di salute psico-fisica (eutanasia; suicidio assistito). «Io lodo la mia morte, perché giunge a me quando io voglio», la profezia del buon Friedrich Nietzsche piace e attira, ma non è reale: lodare l’abbandono perché confacente all’autodisponibilità umana vorrebbe dire negare logicamente quell’istinto di preservazione e cura verso coloro incapaci di intravvedere il senso e il valore proprio che incarnano per sé e per gli altri. La risposta alla domanda precedente è che non sono le nuove generazioni a sguazzare nell’acqua torbida dell’ingenuità, siamo noi ad aver consegnato loro le chiavi di lettura per la rassegnazione promuovendo una vita di desideri incentrata sull’efficienza, sulla funzionalità e sulle risoluzioni facili, pronte, immediate e continuamente disponibili. Dobbiamo riabituarci al dolore, non farci schiavizzare da esso, solo allora sapremo come assisterlo con «presenze amorose» e quale scopo vedere in lui qualora dovesse colpirci incidendo violentemente. Quel vissuto (fisico o psichico) allettato e parziale paragonato alla normalità collettivamente standardizzata, può rivelarsi la risposta più saggia ai vuoti della nostra vita, di noi che per ora stiamo a guardare. La bellezza è collaterale, ma anche il dolore, anche il patimento: entrambe si appellano a quanto siamo disposti a sacrificare per esse nella nostra responsabilità sociale. Il vero diritto da reclamare oggi è quello di poter essere fragili.

La vera forza è avere il coraggio di amarci nonostante la nostra consistenza minima, non sacrificandola.

Giulia Bovassi



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