13/03/2013

Storia e prospettive della legge 194

Sembrava una battaglia vinta, da cantare negli annali della nostra storia, una storia fatta di conquiste e di diritti, di emancipazione. Nessuno però si era chiesto da che cosa realmente ci si stesse emancipando. Sono passati quarant’anni dalla conquista dei c.d. diritti procreativi e ad oggi possiamo apprezzare un mutamento sociale e morale disastroso.
Mi riferisco alla legge 194/78 e al suo portato ideologico, la celebre ed intoccabile normativa inerente la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Le conseguenze della legge -è evidente ad un ipovedente- hanno portato ad un’ecatombe, sostanziale sacrificio umano sull’altare dell’astrazione. Alcune altre conseguenze sono state forse inaspettate. E dico forse. D’altra parte, pretendere di vedere fiorire dell’altro nel giardino della menzogna, era cosa che solo uno sciocco avrebbe potuto pensare.
Per avere una chiave di lettura dei fenomeni sarebbe sufficiente osservare un mediocre baro ad un tavolo di poker: un pazzo che mente in modo sistematico dall’inizio del gioco al suo termine, senza preoccuparsi di cadere nel ridicolo. Il baro è un po’ il simbolo di un’epoca, la nostra, in cui l’impostura e il ridicolo si intrecciano come biacchi innamorati in una danza macabra e ripugnante.
Con il sistematico ciabattare urlante dei radicali e altri residuati morenici della storia come i collettivi femministi, il nostro immaginario continua ad essere popolato di casi pietosi, bugie ben raccontate (le vicende di Seveso) e di minorenni sbarazzine, così numerosi da spingerci ancor oggi ad accettare con buon garbo l’art. 4 della legge 194/78, un articolo emblematico di una disfatta, che legittima l’interruzione di gravidanza in caso di un serio pericolo per la (sua) salute fisica o psichica (della donna), in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del feto. Possibilità talmente ampie da giustificare qualsiasi ricorso all’aborto entro i 90 giorni dal concepimento (in taluni casi anche successivamente), anche con finalità eugenetiche, quelle tanto scongiurate dai cattolici. Che ha fatto lo Stato al tempo della normativa e negli anni successivi? Da baraccone inutile e pilatesco quale è dal 1945, non ha fatto nulla, se n’è lavato le mani, compiacendo le nuove farisee, le donne astratte, autocoscienti e libertarie, braccio armato (non si sa quanto inconsapevole) del Club di Roma e grandi sostenitrici delle farneticazioni neo-malthusiane diffuse da questo sin dal 1972. Con la crisi petrolifera del 1970 sembrava che il mondo stesse per esplodere e che le risorse planetarie non fossero sufficienti a garantire la vita umana; si vide nella pianificazione familiare una delle soluzioni alla sovrappopolazione, la grande idea che ci avrebbe condotti a livelli di benessere maggiori per tutti, con gli apprezzabili risultati che oggi constatiamo. Da lì, l’introduzione massiccia delle misure abortive in tutti i paesi che ancora non vi avevano fatto ricorso.
Travolti dal mutamento sociale ed economico, gli italiani (parimenti agli altri occidentali) non scelsero la vita ma gli arruffapopoli e i politici di professione, che risoluti i primi e non sapendo a che santo votarsi i secondi, pensarono di far fronte all’avanzata della tecnica tecnicizzando tutto.
Estesero l’ospedale, il tribunale e il consultorio, invadendo i luoghi più intimi dell’affetto e dell’amore familiare. E la prevaricazione e la violenza furono accettate di buon grado, quando non con entusiasmo. L’ospedale entrò dalla finestra, il tribunale allagò i sottoscala, i consultori si infilarono tra le coperte e distrussero tutto, a partire da quei gesti per i quali sempre ci sarà chi ostinatamente lotta e chi ci ritrova una ragione per ricominciare.
Va anche riconosciuto che la legge 194 scontentò molti, e persino dagli stessi radicali e da molte femministe provennero bordate già dal 1979. Fu ritenuta brutta, carente, non sentita dalle donne, inapplicata e indebolita dalla clausola mortale che prevede l’obiezione di coscienza (…) ad una legge che perdipiù non permette l’autodeterminazione della donna e il suo controllo sui medici.
Fin dove ci si voleva spingere? Alla totale depenalizzazione dell’aborto. Renderlo, quale realmente è diventato (senza che fosse necessario apporre delle variazioni al testo legislativo) un sistema contraccettivo estremo. A questo punto è evidente come le intenzioni non fossero affatto quelle di tutelare la maternità ma di procedere alla costruzione di una società profondamente diversa. Una società basata sull’edonismo, individualista, dove uno vale uno e che risponde coralmente solo alle esigenze del mercato, essenza fenomenica di un noumeno ben più inquietante, lo gnosticismo che impera nei più altri centri di potere e che vede l’uomo come un animale nocivo per la vita del pianeta.
E non si tratta di prospettive apocalittiche. Con coerenza, a quarant’anni di distanza si constata che fatta debita eccezione per alcune sacche di resistenza, l’aborto diffuso -inteso anche per il suo valore simbolico ovvero come possibilità- ha portato ad un tipo di società realmente differente da quelle del passato. Una percentuale di figli per coppia che si attesta oggi a 1,3 ovvero al di sotto della soglia di sostituzione sta portando al collasso dei sistemi di welfare ed una delle soluzioni che iniziano ad essere presentate sotto mentite spoglie sono l’introduzione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Per non parlare del generale disagio psicologico per una generazione di figli unici, che in quanto tali difficilmente hanno la possibilità di crescere in un clima di cooperazione e che altrettanto difficilmente sapranno riproporne fuori dal cancello di casa. Una generazione di individui buoni solamente per bombardare con i droni le famiglie pari o superiori alle cinque unità.

di Tancredi Sforzin

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