24/03/2019

Una voce alternativa sulle donne: “;La metà del cielo”

È in uscita il nuovo libro di Francesco Agnoli e Maria Cristina del Poggetto sulla storia della donna.
Ne riportiamo un estratto:

Nel 1903 nasce in Inghilterra l’Unione politica e sociale delle donne, organizzazione femminile attiva nella battaglia per ottenere il diritto di voto. Alcune suffragette inglesi non temono di interrompere i comizi politici, organizzare scioperi della fame, sfidare i governi, finendo persino in galera (anche se di solito le pene verso le donne sono più miti). Ma vi sono anche donne inglesi schierate sul fronte opposto, e riunite nella Lega nazionale antisuffragista.

Cedere o meno alle rivendicazioni delle suffragette? Il problema non è solo che siano donne, ma anche un altro: la loro partecipazione spaventa un po’ tutti. Quale partito sceglieranno le donne? Molti hanno semplicemente paura di non essere i prescelti...

Succede qualcosa di analogo in Italia, prima nel 1912, con l’introduzione del suffragio universale maschile – in quanto la borghesia teme il voto dei contadini e degli operai, destinato a far trionfare cattolici e socialisti – e nel 1946, con il suffragio universale femminile, che rafforza soprattutto la Democrazia cristiana e, in secondo luogo, il Partito comunista.

In Italia il voto alle donne viene proposto ad inizio del Novecento soprattutto dai cattolici e dai socialisti. Nel 1919, lo invoca, alla nascita del Partito Popolare, il suo fondatore Don Luigi Sturzo; fa parte anche del programma dei socialisti e dei Fasci di combattimento di Benito Mussolini, anch’essi fondati nel 1919.

Nel 1945, grazie all’azione di Alcide De Gasperi, erede di don Sturzo, e Palmiro Togliatti, con la benedizione pubblica di papa Pio XII («La vostra ora è sonata, donne e giovani cattoliche; la vita pubblica ha bisogno di voi»), viene emanato il decreto legislativo che conferisce il diritto di voto alle italiane che abbiano almeno 21 anni, con la contrarietà dei partiti borghesi (liberali, azionisti e repubblicani), che sanno di non essere i veri potenziali beneficiari del voto femminile.

Anche in Francia, sempre nel 1919, viene proposto dalle stesse forze, cattolici e socialisti, il voto alle donne. La femminista Simone de Beauvoir nel suo Il secondo sesso scrive: «Al femminismo rivoluzionario… si è aggiunto un femminismo cristiano: Benedetto XV nel 1919 si è pronunciato in favore del voto alle donne; Monsignor Baudrillart e Padre Sertillanges fanno un’ardente campagna in questo senso… Al Senato numerosi cattolici, il gruppo dell’Unione repubblicana, e d’altra parte i partiti di estrema sinistra, sono per il voto alle donne: ma la maggioranza dell’assemblea è contraria».

Ad opporsi è soprattutto l’ala radicale, alleata con una parte della sinistra, guidata dal senatore radicale Alexandre Bérard: a suo dire il rischio è dare potere ai “clericali”, perché, secondo una lettura diffusa, sono state le donne cattoliche, in passato, a tradire la «rivoluzione con la loro resistenza al culto della ragione e con la loro cooperazione con i preti». Sarà De Gaulle nel 1944 a preannunciare il suffragio femminile nel suo governo provvisorio.

Intanto «altri Paesi cattolici come l’Austria, la Polonia, l’Irlanda e la Spagna concedevano alle donne i diritti politici (1918, 1922, 1931)», mentre in Belgio, dal 1922, possono votare madri e vedove dei caduti, e in Portogallo le donne istruite.

Oltre al diritto di partecipare alla vita politica, nelle prime rivendicazioni «avanzate dalle donne delle classi medie», si afferma l’idea che «il lavoro e la maternità non potevano e non dovevano cumularsi, almeno nelle prime fasi della maternità». In questo femminismo, definito anche “femminismo materno” o “maternalismo femminista” la maternità viene per lo più vista non come «una questione isolata, bensì come la condizione unificante del sesso femminile».

Tra il 1890 e il 1920 circa, la maggior parte delle femministe, di qualsiasi colore politico, ritengono il lavoro domestico e la cura dei figli un compito primariamente femminile, ma rivendicano il riconoscimento di maggior dignità al lavoro di madre e di “casalinga”: le madri che allevano i figli svolgono una “funzione sociale” importantissima, che deve essere riconosciuta anche economicamente. Il lavoro domestico non è una questione privata, ma pubblica; non è degradante, ma essenziale per la famiglia e la società.

Per la femminista tedesca Kate Schirmacher le donne non hanno «bisogno, per l’emancipazione, di aggiungere un’altra forma di sfruttamento, cioè quella del lavoro malretribuito», ma che la società conceda il «riconoscimento sociale, politico ed economico del lavoro domestico».

Per la francese Nelly Roussel le madri hanno diritto al «giusto salario per il nobile lavoro materno», mentre un’importante femminista norvegese, nel 1918, chiede di rendere «il lavoro femminile più pagato» proprio quello delle madri. Per l’inglese Alys Russel i socialisti sbagliano a «considerare le donne più come lavoratrici industriali che come madri» e a «vedere la questione femminile semplicemente come un’appendice della questione del lavoro salariato».

Redazione

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