26/09/2017

Uomini e donne: diversi per natura, anche nello sport

Un’élite culturale odierna ritiene che mascolinità e femminilità, lungi dal dipendere dalla natura e dalla biologia, si “apprendano” in famiglia e nella società in generale. Uomini e donne non si nasce, si diventa, ci dicono.

Il gender diktat, che alla parola sesso sostituisce l’ambiguo termine genere, mira dunque ad abolire le differenze sessuali, negando l’esistenza di nature, tanto diverse quanto complementari, tra uomini e donne, dalle quali derivano gusti, interessi e doti specifiche. L’ideologia del gender si propone di appiattire la diversità sessuale maschile e femminile, proponendo un modello culturale ed educativo neutrale, che non tenga conto in nessun modo di tali determinanti differenze e inclinazioni naturali.

Per cercare di comprendere tale diseguaglianza sessuale primordiale, insita nella stessa natura umana, è utile indagare il diverso comportamento dell’uomo e della donna rispetto a quella che, assieme al sesso e all’allevamento della prole, costituisce una delle tre passioni fondamentali dell’uomo: l’istinto all’aggressività e alla competitività.

In ogni tempo e in tutte le società, l’aggressività è sempre stata una prerogativa maschile. A tale proposito, Steven Pinker, uno psicologo del MIT, sottolinea come: «Puntare un’arma da fuoco e cacciare è un piacere innato per gli uomini». In tale diversità comportamentale, come mette in evidenza lo studioso americano Steven Rhoads, il fattore biologico gioca un ruolo determinante: «Studi sui bambini di sei mesi dimostrano che i maschi sono in genere meno paurosi delle femmine e che la mancanza di paura è connessa ai livelli di testosterone». Per questo prosegue Rhoads, «gli uomini costituiscono la stragrande maggioranza di coloro che pratica- no sport estremi, (...) Le donne che seguono sport estremi hanno un approccio diverso, e spesso ritengono sconsiderati i maschi».

Diversi studi confermano che, anche sul piano biologico, esiste una differenza comportamentale tra maschi e femmine, mettendo in luce il ruolo svolto dai fattori ormonali, in particolare dal testosterone, in relazione alla predisposizione all’aggressività.

Lo studioso James Dabbs (1937- 2004) ha svolto delle interessanti ricerche riguardo gli effetti del testosterone sul comportamento umano. In uno di questi, paragonando i livelli di testosterone di 4.462 veterani dell’esercito, ha scoperto che coloro che avevano i più alti livelli di testosterone, il 10%, avevano storie di vita molto diverse dal restante 90%. In particolare, riporta sempre Rhoads, «avevano il doppio delle probabilità di essere sia delinquenti che consumatori di droghe pesanti nella vita adulta». In un’indagine analoga, condotta nell’ambito della popolazione carceraria, Dabbs ha constatato, inoltre, come coloro che erano condannati ai crimini più violenti ed avevano un atteggiamento più aggressivo all’interno del carcere, erano quelli nei quali si riscontrava il più alto livello di testosterone.

L’inclinazione naturale degli uomini alla competizione e alla aggressività è un fattore positivo, anche se, quando non è ben incanalata, può rivelarsi fonte di comportamenti sociali deviati. In assenza di guerre, o di altri eventi che appaghino la naturale aspirazione dell’uomo al rischio e all’eroismo, una delle modalità più efficaci per gestire tali innate tendenze nei maschi è quella di praticare uno sport, notoriamente definito come una “valvola di sfogo” per adolescenti irrequieti e turbolenti.

Negli Stati Uniti, patria mondiale dello sport, l’accesso alle attività sportive, nelle scuole finanziate con fondi pubblici, è stato tuttavia vittima dell’ideologia femminista con l’adozione, nel 1972, della legge contro la discriminazione sessuale “Title IX”. Una legge che, nata con l’obiettivo di coinvolgere maggiormente le ragazze nello sport, ha finito per discriminare e danneggiare i ragazzi che si sono visti gradualmente ridurre drasticamente le opportunità di partecipazione. Stabilire delle quote paritarie nell’accesso alle attività sportive senza tener conto delle differenze attitudinali naturali tra maschi e femmine – scrive sempre Rhaods – ha fatto sì che «dal 1985 al 1997 nei college sono spariti più di 21.000 posti per atleti maschi. Solo dal 1992 sono scomparse più di 359 squadre maschili». Christine Stolba, dell’Independent Women’s Forum ha fatto notare, inoltre, come «solo tra il 1993 e il 1999 erano state eliminate 53 squadre di golf ma- schile, 39 di atletica leggera, 43 di wrestling e 16 di baseball. La squadra di tuffi della University of Miami, che aveva sfornato 15 atleti olimpici, è scomparsa». I critici della legge sulla discriminazione sessuale negli sport sottolineano il fatto che, generalmente, gli uomini sono più entusiasti delle donne nei confronti dello sport intercollege e, di conseguenza, «una politica che fornisce a uomini e donne un numero di posti proporzionalmente equo, in realtà implica che gli uomini che vogliono praticare degli sport intercollege hanno meno possibilità di farlo del- le donne con lo stesso desiderio». Tale criterio valutativo, basato unicamente sul livello delle iscrizioni, ha finito, paradossalmente, per discriminare tanti maschi impossibilitati ad accedere alle attività sportive a causa di tale normativa. In tale prospettiva, scrive Rhoads, la “Title IX” è stata trasformata in «un tentativo federale di manipolare il comportamento femminile in modo favorevole a certi gruppi di donne», la realizzazione pratica di una «più ampia campagna femminista per correggere una cultura, la società americana, malata di sessismo e impegnata a scoraggiare ragazze e donne dal praticare dello sport».

L’assunto alla base di tale programma ideologico è ben espresso nelle parole di Valerie Bonette, una delle sostenitrici del progetto: «Le donne non sono nate meno interessate allo sport. È la società che le condiziona». Gli estensori della “Title IX” ignorano o fingono di non cono- scere i numerosi studi che atte- stano come il maggior interesse maschile per lo sport derivi dalla loro natura e non sia legato alle influenze sociali. I risultati di tali studi dimostrano che le ragazze definite “maschiacci”, considerate androgine e mascoline, amanti dei giochi violenti e degli sport competitivi, sono quelle che sono state esposte a livelli di testosterone oltre la norma nell’utero materno.

La normativa americana sulla differenza sessuale negli sport, “Tit- le IX”, rappresenta, in maniera em- blematica, l’ottusità dei fautori del gender che, ignorando il ruolo deci- sivo svolto dalla natura nella forma- zione del comportamento umano, pretende di piegare forzatamente la realtà alla propria ideologia. I promotori di tali disposizioni dovrebbero tenere bene a mente le sagge parole di Felix Frankfurter (1882-1965), giudice americano della Corte Su- prema, secondo il quale: «Non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali». Per questo, la progettazione di politiche pubbliche che siano giuste, funzionali e di buon senso, non può prescindere dal fatto che uomini e donne non sono uguali, ma hanno attitudini, inclinazioni e doti secondo la propria specifica natura.

Naturalmente la mascolinità e la femminilità non possono essere ridotte a fattori ormonali e biologici. Si è maschi o femmine nell’anima, prima di esserlo nel corpo, ma così come la grazia presuppone la natura, le differenze spirituali e psicologiche che esistono tra un uomo e una donna sono confermate e non contraddette dal sostrato biologico degli esseri umani.

Rodolfo de Mattei

Fonte: Notizie ProVita, maggio 2015, pp. 22-23


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