11/02/2016

Aborto “terapeutico” e proposta di riforma della 194

Il 14 gennaio scorso è stato consegnato dall’avv. Guerini, presidente dell’associazione No194, su richiesta del Senatore Domenico Scilipoti Ingrò, un disegno di legge sull’aborto che contempla il suo divieto e la sua penalizzazione.

Questo evento, oltre a destare stupore, non può non suscitare interrogativi quali “a che cosa porterà questa iniziativa?”; “verrà strumentalizzata?”.

Di fronte ad argomenti di tale portata, spesso, ci si lascia anche facilmente coinvolgere dall’emotività quando si parla della salute della mamma e del caso di grave pericolo di vita di questa, contemplato dal ddl come l’unico in cui si ammette la legittimità dell’intervento diretto sul feto. L’aborto, grave delitto che colpisce un innocente indifeso ed impotente, è legittimo in alcuni casi? Come affrontare i casi-limite dal punto di vista medico, etico e giuridico?

Tenteremo di affrontare per esteso queste domande nel saggio breve che potete leggere cliccando qui, sotto l’aspetto bioetico, limitandoci qui ad alcuni cenni riassuntivi.

Il punto cruciale sta nel senso proprio dell’espressione “diritto alla salute” e nella questione dell’aborto in caso di grave rischio per la vita della donna, che comunemente ed erroneamente viene chiamato “terapeutico”, anche se l’avv. Guerini lo ha definito in maniera ben più esatta ed esplicita, come “aborto volontario”. Ora, però, secondo E. Sgreccia, «nel caso in questione non si tratta di agire su una malattia in atto, ma piuttosto, si ipotizza la soppressione del feto per evitare l’aggravamento della salute o il pericolo di vita della madre» (E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vita e Pensiero, 2007 Milano, p. 573).

aborto-NO-194In Italia si è partiti dalla sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 della Corte Costituzionale, ove si contemplava la possibilità dell’aborto cosiddetto “terapeutico” diretto a proteggere soprattutto la vita della madre, per poi estendere i casi di IVG a «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito…», nella legge 194/78. La sentenza del ’75, quindi, è stata la testa di ponte per introdurre quello che di fatto oggi è l’aborto eugenetico, condizionando pesantemente la mentalità, il costume, la cultura.

Pregiudizi di natura ideologica non tengono conto della realtà clinica che mostra come l’aggravamento di salute della madre può essere affrontato con metodi diversi dall’IVG (la dialisi periodica nelle gravide affette da grave insufficienza renale, la cardiochirurgia in donne con difetti cardiaci, ecc.). Inoltre lo scompenso che si causa in una donna per la perdita del figlio sconsiglia in molte circostanze acute l’IVG.

L’aborto volontario, diretto, quindi, non può essere ammesso né come fine, ma neanche come mezzo. E’ invece dovere del medico sostenere la vita sia della madre sia del bambino e offrire tutti i mezzi terapeutici per la salvezza di entrambi. Non si può nemmeno scegliere la vita della mamma, con un’azione diretta di soppressione del figlio. Ben diversa è la circostanza in cui, durante l’intervento del medico, teso a salvare la vita di entrambi, uno dei due muoia accidentalmente e in modo indipendente dall’intenzione e dall’azione diretta dell’operatore sanitario.  La prassi medica, in tal modo, si muove nel rispetto della vita di tutti, senza “creare dei martiri involontari”, come spesso si pensa, ma fornendo alla mamma e al figlio tutti gli aiuti umanamente possibili affinché entrambi vivano, amandosi.

Francesca Pannuti

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