10/01/2018

Bioetica – Le dimensioni umane della biomedicina

Nel 1978 W. T. Reich offriva una definizione di bioetica che sarebbe divenuta canonica: «Lo studio sistematico della condotta umana, nell’area delle scienze della vita e della salute esaminata alla luce dei valori e dei principi» (W. T. Reich, Introduction; Encyclopedia of Bioethics, 4 voll, free press, New York 1978).

In essa si specificava:

  • un oggetto materiale: la condotta umana nel campo delle scienze della vita e salute;
  • un oggetto formale (o prospettiva secondo cui l’oggetto materiale viene esaminato): i valori e i principi morali;
  • un metodo: studio di tipo sistematico e interdisciplinare.

Era una definizione della “bioetica” differente rispetto a quella fornita da Van Rensselaer Potter nel famoso articolo dal titolo Bioetica: un ponte verso il futuro, pubblicato nel 1970 sulla rivista della Wisconsin University, “Perspectives in Biology and Medicine“: «Ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; e ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani» (V.R.Potter, Bioetica: un ponte verso il futuro).

Rispetto a quella si determinava, infatti, un indirizzo per la bioetica specificatamente biomedico. Mentre per Potter la bioetica si estendeva alla riflessione sugli interventi sulla vita anche extra-umana o sull’ecosistema, per Reich si focalizzava sulla vita umana in quanto oggetto di intervento medico, includendo l’etica clinica e l’etica della ricerca medica.

Col tempo si sarebbero sempre più precisati due ambiti distinti della bioetica:

  • uno, che potremmo definire globale (di ascendenza potteriana), indirizzato a settori e temi quali ogm, biotecnologie, inquinamento, utilizzo bellico delle armi biologiche e nucleari, sperimentazione sugli animali, veganismo etc.;
  • uno, che potremmo definire medico, indirizzato a settori attinenti all’inizio vita (sperimentazione su embrioni, tecnologie riproduttive, clonazione, diagnosi prenatali, gravidanza, contraccezione, sterilizzazione, aborto), al fine vita (accanimento terapeutico, eutanasia, DAT, terapie palliative), con l’implicazione non secondaria di rifondare eticamente il rapporto medico-paziente.

La ricerca e la sperimentazione di nuovi farmaci, lo studio delle cellule staminali, la decodificazione del genoma umana, nonché l’introduzione di nuove tecniche d’intervento, quali i test genetici pre e postnatali, le nanotecnologie, la telemedicina, la clonazione etc., avrebbero reso sempre più urgenti i problemi di questo delicato e nevralgico ambito bioetico.

Ma nella sua definizione Reich si poneva in discontinuità rispetto a Potter anche per un altro motivo. Mentre Potter parlava della Bioetica come di una nuova scienza, Reich faceva piuttosto riferimento a un metodo nuovo di esame dei problemi etici in ambito biomedico, come si evince dalla definizione che egli fornì nella nuova edizione dell’Encyclopedia of Bioethics del 1995: «Studio sistematico delle dimensioni umane, inclusa la visione morale, le decisioni, la condotta e le politiche delle scienze e della salute, utilizzando varie metodologie etiche con una impostazione interdisciplinare».

Ciò importava una continuità rispetto all’esperienza e ai metodi messi a punto dall’etica nel corso della sua storia e, insieme, un tentativo di sottrarsi ad una visione morale di tipo assiologico. Il versante etico della bioetica era interessato, infatti, per quanto atteneva alle metodologie, non per i valori o i principi.

Ma quello che appare più significativo era il riferimento alle dimensioni umane, e cioè alle implicazioni antropologiche della bioetica. Tanto più che questo si poneva non su un piano astratto, ma proprio nel vivo dell’approntamento di concrete strategie di risoluzione dei problemi.

Ne viene, restando sul piano metodologico, la connessione stretta fra il dato sperimentale, ossia il fatto medico accertato, le indicazioni etiche, ossia i risvolti etici, e le dimensioni umane. Potremmo dire, in un senso che Reich non avrebbe condiviso, che diventano fondamentali i valori in gioco in relazione alla persona.

Al di là di ogni valutazione etica, resta, comunque, che la definizione del ‘95 di Reich fotografa il riemergere della questione uomo in relazione, e spesso in contraddizione, con le nuove possibilità di intervento sulla vita umana e sulla stessa costituzione fisica ereditaria. Vi si fa evidente la discrasia fra il potere raggiunto dalla scienza e il riproporsi di una domanda antica, risonante anche nella Bibbia: «… che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Salmi 8,5).

Questa domanda radicale e, per certi versi, paradossale nel nostro mondo ipertecnologico, s’impone come una pietra d’inciampo nel lavoro dei ricercatori e dei medici, disarmante per la sua radicale semplicità a fronte della complicatezza sempre maggiore che caratterizza quel mondo. La vita umana in tutte le sue fasi, dall’origine non più (apparentemente) misteriosa nel grembo materno alla sua fine, per certi versi, non più impreventivabile, finisce al centro dell’obiettivo. Interpella, si fa domanda inderogabile e non tecnica, in un mondo ipertecnologico, essenziale e non quantificabile, per quanto riferibile, come detto, a situazioni e fatti. Ed è questo, ci pare, un dato su cui riflettere, anche al di là della bioetica intesa come ambito specifico del sapere.

Clemente Sparaco


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