20/12/2014

Brevetto UE sugli ovociti: le donne come le galline

Come abbiamo già detto, la decisione della Corte UE sulla brevettabiltà degli ovociti non ci rasserena e non ci lascia tranquilli.

Con la solita lucida e chiara razionalità, la Morresi su Avvenire, ha dato voce ai nostri dubbi e alle nostre domande.

Un embrione umano non può mai essere utilizzato a fini industriali o commerciali. Questo è stato ribadito ieri dalla Corte di giustizia europea, che ha chiarito il criterio in base al quale stabilire quando un organismo si può definire “embrione umano”: deve avere «capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano».

In sé la questione è chiara: in base alle normative Ue, non è possibile brevettare l’uso di embrioni a fini commerciali o industriali. La sentenza Brüstle del 2011, emessa sempre dalla Corte di giustizia Ue, includeva nella definizione di embrione anche ovociti sviluppati per partenogenesi, cioè non fecondati ma capaci di svilupparsi a seguito di manipolazioni chimiche ed elettriche. Appellandosi a questa sentenza, l’ufficio brevetti inglese aveva respinto due richieste dell’azienda americana International Stem Cell Corporation (Isco), che riguardavano metodi di produzione di materiale biologico da ovociti sviluppatisi per partenogenesi (i cosiddetti “partenòti”): poiché gli ovociti così trattati erano esplicitamente considerati embrioni umani dalla sentenza Brüstle, non si poteva brevettare una procedura che ne prevedesse l’uso.

La Isco ha avviato un contenzioso sostenendo che, alla luce delle più recenti conoscenze scientifiche, questi ovociti non potrebbero mai diventare un essere umano, perché contengono solamente il Dna materno, e mancano totalmente di quello paterno. La stessa Isco ha anche modificato la sua domanda di brevetto, per escludere qualsiasi manipolazione aggiuntiva di tipo genetico che potesse anche solo in linea di principio portare allo sviluppo di un essere umano.
La Corte Ue non risolve contenziosi nazionali, ma con la sentenza ha chiarito l’interpretazione della norma per tutti gli Stati membri, esplicitando la definizione di “embrione umano”. E con una nota a margine ha precisato la conseguenza dell’applicazione di quel criterio: «Pertanto – si legge – le utilizzazioni di un organismo del genere a fini industriali o commerciali possono essere, in linea di principio, oggetto di brevetto». Cioè, se si esclude che un ovocita attivato per partenogenesi sia un embrione – e questo lo stabilirà il giudice inglese –, allora la Isco potrà fare domanda di brevetto.

Ma qui la storia non finisce: piuttosto, comincia. Innanzitutto la normativa distingue fra “scoperta”, che non può essere brevettata, e “invenzione”, che invece può esserlo, perché implica l’intervento dell’ingegno umano. Quindi, per esempio, organi, cellule e parti del corpo così come si presentano naturalmente non possono essere brevettati – e quindi un ovocita umano in quanto tale non può essere brevettato.

Ma possono esserlo le procedure di isolamento, manipolazione o ricostruzione, e quindi, per esempio, potrebbero esserlo i trattamenti degli ovociti che la Isco vuole registrare, e i prodotti che ne seguono. Ed ecco le domande. La prima: fino a che punto è lecita la manipolazione di parti del corpo umano, specie – ma non solo – se a fini commerciali? La seconda: in che modo procurarsi le parti del corpo umano da trattare? Alla prima risponde la normativa quando vieta la brevettabilità nei casi contrari all’ordine pubblico o al buon costume: si riconosce cioè il fatto che trarre profitto da un’attività non è sempre lecito, e si dà spazio a valutazioni di tipo etico, che però non sempre hanno risposte chiare, specie quando sono coinvolte cellule particolari, quali i gameti.

Come valutare, ad esempio, una procedura per sintetizzare gameti artificiali, cioè per generare in laboratorio spermatozoi e ovociti a partire da altre cellule? E un futuro “utero artificiale” potrà essere brevettato come un modello particolare di incubatrice? La seconda domanda si pone da decenni, in particolare per gli ovociti, ma può essere estesa ad altro: è lecito commerciare parti del corpo umano, anche se è il proprio?

L’esperienza – ma innanzitutto il buon senso – ci dice che le donne non si sottopongono gratis a trattamenti ormonali e a interventi chirurgici per produrre tanti ovociti da regalare alla ricerca. Lo fanno solo se ben pagate. Ma brevettare una tecnica come quella della Isco significa proporre un’attività commerciale basata sulla produzione e la cessione di ovociti da parte delle donne. Si vorrà mascherare ipocritamente tutto questo con la parola “donazione”? E poi, di che parleremo: della “donazione” del corpo umano al mercato?

Assuntina Morresi

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