07/04/2016

Chip sottocutaneo di identificazione: “Dangerous Thing”, cosa pericolosa

Su “La Repubblica” dello scorso 29 marzo 2016 è apparso un entusiastico articolo di “promozione” di un bene e di un servizio fornito da una impresa, il nome della quale è già sintomatico essendo “Dangerous things” ( cioè “Cose pericolose” ), che consente a ciascuno di diventare un po’ cyborg tramite l’impianto di un chip dermale sottocutaneo all’interno della propria mano che dovrebbe facilitare la vita consentendo di rinunciare a password, pin, chiavi, carte di credito, documenti di identità ecc…

I benefici vengono presto spiegati: evitare la falsificazione di documenti e carte di credito; concentrare le informazioni del soggetto tutte in un unico dispositivo sempre a disposizione e facilmente aggiornabile; evitare il furto o lo spionaggio dei dati sensibili; velocizzare e rendere maggiormente sicuri gli acquisti.

In prospettiva, nell’incertezza di un futuro sempre più socialmente caotico e violento, l’impianto del chip sembra pensato per offrire enormi garanzie di sicurezza personale e collettiva: sotto il primo profilo si pensi alla possibilità di una più semplice e snella identificazione personale ( aeroporti, punti doganali, stazioni, porti navali, ingressi di luoghi ricreativi come stadi, teatri o cinema ), alla capacità di rintracciare il soggetto desiderato, come per esempio un minore o un incapace, alla capacità di disporre e memorizzare in tempo reale tutte le rilevazioni delle informazioni biometriche personali (pressione, gruppo sanguigno, temperatura, dna, livelli glicemici, anamnesi, terapie in corso, ecc ); sotto il secondo profilo si pensi alla possibilità di individuare un detenuto evaso, alla possibilità di conoscere immediatamente la situazione fiscale, amministrativa e giudiziaria del soggetto a cui è impiantato il chip, o, soprattutto, la tutela dell’ordine pubblico che verrebbe quasi totalmente assicurata in quanto, tramite appositi sensori e scanner radio, si potrebbe in ogni momento sapere quanti e chi sono i singoli soggetti che occupano un determinato spazio pubblico come una strada o una piazza o ricostruirne in dettaglio gli spostamenti.

Insomma, la prospettiva di un chip, che per ora riguarda pochi volontari, ma il cui innesto non si dubita sarà presto “consigliato” per poi divenire sicuramente obbligatorio ( del resto è per esempio già accaduto per gli animali domestici come cani e gatti ), sembra offrire un roseo futuro per l’umanità che appare tenuta a familiarizzare con un simile concetto per il suo bene, per il bene dei più indifesi come bambini, anziani e malati, per il bene di tutta la società nella sua interezza.

Ma è proprio così?

Non ci sono “controindicazioni” dal punto di vista medico, giuridico ed etico?

A ben guardare ve ne sono moltissime e sotto ciascuno di questi predetti profili.

Dal punto di vista medico non sono ancora conosciuti gli effetti di lungo periodo non tanto dell’innesto sottocutaneo, quanto piuttosto dell’esposizione continua e vita natural durante dell’organismo alle onde radio che il chip emette durante tutta la sua attività; insomma, si vive nell’epoca degli allarmismi per gli effetti dei cellulari, dei radar militari, dei ripetitori sui tetti degli edifici e invece non si dovrebbero avere dubbi sulla pericolosità per la salute di un chip impiantato nel corpo umano per tutta la vita?

Dal punto di vista giuridico la faccenda è ancor più complessa.

Potrebbe diventare obbligatorio per legge l’impianto di un simile chip? E come potrebbe lo Stato pretendere che un individuo si sottoponga per legge ad un intervento, anche se “soft” come quello dell’innesto di un chip, sul proprio corpo? Sarebbe possibile opporre il diritto ad una propria obiezione di coscienza? E ancora: non si rischierebbe di compromettere proprio quella privacy, che invece tramite il chip si vorrebbe garantire, in quanto nel chip sarebbero rinchiuse tutte le informazioni, anche personalissime come i dati sulla salute, riguardanti il soggetto che lo ha impiantato? E non si rischia di limitare, per non dire escludere, la vera e propria privacy delle persone che in qualunque momento – anche se con la motivazione della sicurezza personale e collettiva – sarebbero rintracciate in ogni loro spostamento? E il diritto all’integrità del corpo e all’autodeterminazione non sarebbero violati da una imposizione legale di tal fatta? E se in futuro oltre il chip la legge ordinasse altri interventi sul corpo in base al precedente del suddetto impianto? E chi gestirebbe tutta questa massa di dati personali? Un privato o un pubblico? E con che livelli di sicurezza? E per quali finalità? E non rischia la libertà di tutti e di ciascuno di essere del tutto eliminata in una sorta di “grande fratello” bio-tecnologico?

Dal punto di vista etico sorgono altresì numerose e terribili perplessità, di cui almeno tre sono le principali.

In primo luogo: può davvero l’essere umano essere disposto a sacrificare la libertà quasi totalmente per aumentare i propri livelli di sicurezza personale e collettiva?

In secondo luogo: perché la specie umana dovrebbe favorire l’avvento della generazione cyborg?

In terzo luogo: l’alba della creazione del cyborg così entusiasticamente figurata dall’avvento del chip sottocutaneo è davvero priva di risvolti problematici? Il cyborg non è forse la rappresentazione futuristica della più avanzata forma di negazione dell’identità umana? Come ogni post-umanesimo, non è il cyborg una forma, evolutissima e sofisticatissima, di anti-umanesimo?

Al quadro fin qui già fosco e problematico si aggiunge, almeno per chi condivide una prospettiva di fede, anche la dimensione teologico-scritturistica, quella per cui una simile iniziativa è la prova del nove di una ben precisa “teoria”, fino ad ora sostenuta soltanto da certi ambienti border-line sempre prontamente accusati di complottismo e visioni paranoidi, ma che adesso sembra acquistare una verosimile concretezza: l’avvento della bestia antidivina e della sua tirannide che comincerà proprio con l’imporre il marchio satanico a tutti gli esseri umani, come recita il libro dell’Apocalisse secondo il quale l’anticristo « faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome » ( Ap. 13, 16-17 ).

In conclusione, non si può fare a meno di rilevare, tuttavia, che si tratta con tutta evidenza di un tentativo di elevare il dominio dell’uomo sull’uomo dapprima restringendo gli spazi di libertà individuali in nome della sicurezza collettiva, e successivamente ristrutturando l’identità umana stessa attraverso l’implementazione dei sistemi bio-cibernetici per la creazione, appunto, del chimerico cyborg, evenienza che, per i suoi risvolti e le sue conseguenze, andrebbe dunque salutata con ben poco entusiasmo e con non poche riserve soprattutto di carattere etico e giuridico.

Aldo Vitale

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