20/03/2013

Ciò che resta dopo un aborto volontario

La testimonianza di una psicoterapeuta specializzata nella cura dei traumi conseguenti all’aborto

Sono in treno, di città in città a raccontare ciò che resta dopo un aborto volontario, quali sofferenze per la donna, per gli uomini, per gli altri figli, per i nonni, per i medici obiettori e non, per l’intera società. È diventato più difficile difendere la vita appena concepita oggi! Lo vivo sulla pelle tutti i giorni. Tra colloqui di salvataggio, terapie postaborto e postfecondazione artificiale, telefonate infinite nel mezzo della notte di donne che non riescono a perdonarsi di avere ucciso il loro figlio, che tirano fuori a quelle ore l’ecografia per baciarla e chiedere scusa al bimbo che non è con loro, che sperano che i medici abbiano lasciato dentro un pezzettino che si possa riformare per non toglierlo più, che raccontano di come abbiano iniziato a drogarsi e ubriacarsi dopo l’aborto o in corrispondenza della data del parto che non c’è stato, di come abbiano cercato, buttandosi in mille altre storie fallimentari, di avere un altro figlio per cercare di sostituire quello abortito, per colmare quel vuoto lasciato non riuscendoci; che portano fiori bianchi davanti alle cliniche dove hanno abortito il giorno dell’anniversario del loro aborto; e tanto altro ascoltano le mie orecchie. E nei giornali il festeggiamento per una legge buona, applicata bene, che fa diminuire il numero degli aborti, si parla di diritti, di autodeterminazione della donna, che bisogna facilitare togliendo gli ostacoli delle procedure, di consultori che funzionano benissimo anzi con troppi obiettori per il gusto di qualcuno. Quanto è distante la verità su quel piccolo essere che si sta formando nel grembo di ogni mamma incinta, quanto distante la ‘salute riproduttiva’ dalle sofferenze postaborto. Come siamo potuti arrivare a tanto? Chi spaventano questi bimbi concepiti se vengono al mondo? No! solo se la donna vuole! È la risposta di certo vetero femminismo che con il femminile ha poco a che fare. Ma la realtà poi è un’altra. Donne che non si perdonano, donne che mi inseguono dopo ogni conferenza dicendo che ciò che dico è vero, che anche a loro è successo e non dimenticano e si accusano di essere state deboli in quel momento. Altro che incidenti fortuiti. L’ho cercato, l’ho voluto, c’ero. Sono io la responsabile. E la memoria conferma: ho firmato, sono stata una codarda. Avrei dovuto lottare e non l’ho fatto. Gli studi scientifici sulle conseguenze fisiche e psichiche non mancano. Le testimonianze personali che sono diventati libri nemmeno. E allora perché non aprire gli occhi una volta per tutte sul baratro che si apre dopo e la sensazione di morte che ti consuma dentro perché la tua bara è ancora lì, il figlio che non c’è più, il figlio che hai ucciso? Perché continuare a parlare di conseguenze psichiche post aborto, di ansia, depressione, bassa autostima, fobie, ossessioni, pensieri intrusivi se non disturbi più gravi che arrivano fino alle psicosi? Perché è la vita che lo chiede, che chiede di dare un nome a quei figli, di lenire queste ferite purulenti per non fare altro danno a se stessi e a quelli che ti circondano, ai figli che verranno e a quelli che ci sono già. E continua la corsa di questo treno. Un’altra corsa, un’altra fermata, un’altra conferenza. Lo stesso identico dolore.

di Cinzia Baccaglini

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