Era giunto persino ad elaborare l’etica e il diritto sessuati, ad opera della sua teorica Claudia Mancina, aveva fatto della contrapposizione tra i sessi il suo cavallo di battaglia, affondando le sue radici nel dialettico rapporto dei primordi, così caro al binomio Marx- Engels: i sessi sono due e dall’origine sono in lotta tra di loro per il predominio. Si parla del femminismo storico – radicale, va da sé. Quel femminismo che per decenni ha tenuto la scena del mondo, supportato dal sistema della grande comunicazione, per chiedere quelli che sono, a parer suo, le grandi conquiste per la donna. Divorzio e libertà di aborto.
Oggi questo femminismo sembra un po’ in stallo. Le mimose sono un po’ meno festose, meno gialle
Avanza a gran passi la cosiddetta cultura liquida che non tralascia di informarci ad ogni piè sospinto che il futuro è queer e che è franata una delle granitiche certezze che hanno accompagnato l’umanità da sempre, che cioè i sessi sono due, che come si nasce, maschio o femmina, si vive e che questo connota ontologicamente l’intera nostra esistenza.
La cultura del gender, la più grande sfida alla Chiesa di questi tempi, come l’ha recentemente definita Benedetto XVI, avanza e guadagna ogni giorno terreno: il sesso biologico, ci dice, non conta nulla, siamo quello che vogliamo essere giorno per giorno.
Ovvia perciò la conseguente ricerca di un tema, un argomento, una nuova battaglia da combattere per riaggregare le forze un po’ disperse e disorientate. E pare che il femminicidio – neologismo finora ignoto ai codici penali – sia proprio l’argomento giusto, l’occasione che fornisce la possibilità di rimettere assieme i ranghi di un femminismo un po’ stanco, dopo le fiacche e deludenti battaglie del Se non ora quando.
Quella del femminicidio è certamente una tigre da cavalcare, per il femminismo, una battaglia da combattere, cui si aggregheranno per strada anche altre forze che acriticamente vorranno dire sulla donna qualcosa che sia da tutti condivisibile e politicamente corretto.
Intendiamoci: è un dato innegabile che la violenza contro le donne tenga quotidianamente la cronaca e che le donne vengano spesso brutalizzate e uccise in una spirale di violenza tanto più disgustosa in quanto spesso perpetrata da chi, quelle donne, avrebbe dovuto amare e proteggere.
Ma questo dovrebbe spingere chi sia abituato a riflettere prima di parlare, a riconoscere che non è possibile disgiungere e isolare la violenza sulle donne, da quella violenza che pare ormai il segno sotto il quale si snoda quotidianamente la nostra vita, che colpisce tutti, indiscriminatamente, e che si manifesta nei rapporti di sopraffazione, che ad ogni piè sospinto, nelle più svariate occasioni del quotidiano, si instaurano tra le persone, quando ciascuno cerca di far valere le sue ragioni, il suo punto di vista, il suo io, a scapito dell’altro. Viviamo in una società violenta in cui la vita della persona è ormai un valore screditato.
Che la donna sia vittima, in certo senso privilegiata di questa violenza, che su di lei sia più facile infierire, che costituisca uno degli anelli deboli della catena che saltano in tempi travagliati e insicuri, è una costante della storia.
“Enormi condizionamenti in tutti i tempi e in ogni latitudine hanno reso difficile il cammino della donna” riconosce Giovanni Paolo II nella “Lettera alle donne”, ripercorrendo “la lunga storia dell’umanità in cui le donne hanno dato un contributo non inferiore a quello degli uomini, il più delle volte in condizioni ben più disagiate” fra mille ostacoli, nell’emarginazione, nel misconoscimento della loro dignità, di ogni diritto in quanto persona.
E’ un fatto che il cammino della donna sia sempre stato molto faticoso. Tanto più in tempi violenti, non rispettosi per la vita, come quelli che stiamo vivendo, appunto.
E forse il femminismo radicale dovrebbe almeno fare un esame di coscienza e recitare il mea culpa.
Ha predicato infatti per decenni una cultura contro la famiglia presentata come “l’istituzione dove si definisce la subordinazione femminile”, una cultura che banalizza la sessualità e usa le sue strategie contro la vita umana più debole. Ha lottato e conquistato la libertà di aborto come la grande vittoria della donna, senza voler vedere che l’aborto, l’uccisione dell’innocente, avrebbe segnato con la sua barbarie e con la sua violenza tutto il vivere della nostra società.
Ha senso allora stracciarsi le vesti di fronte agli esiti perversi di una cultura predicata da sempre come conquista di civiltà?
Per fermare l’escalation della violenza non basta gridare, protestare, accusare.
Per guarire non basta curare i sintomi: occorre scrutare e trovare l’origine del male.
Risuona forte il richiamo che Giovanni Paolo II rivolge alle donne, nella conclusione dell’ enciclica Evangelium vitae, per un nuovo femminismo che sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento (n.99). Accogliete la vita – esorta Papa Wojtyla- in nome di un nuovo femminismo che esalti la vera natura del femminile, che della donna sappia accogliere e valorizzare la capacità generativa, di accoglienza, di prendersi cura, di farsi carico, di amare, di educare.
Sì, anche di educare, perché il femminismo storico, nella sua opera demolitrice, attaccando la famiglia, ha attaccato anche nella donna colei che trasmette i valori, la tradizione, la religione, il senso della vita. Ha privato la società di educatori e i figli dell’educazione loro dovuta. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
di Marisa Orecchia