22/03/2017

Eugenetica “liberale”, o amore che accetta e che dona?

La parola eugenetica (dal greco eughenés, «di buona nascita») rimanda inevitabilmente ai tentativi di perfezionare la specie umana adottati dalle ideologie novecentesche.

Il pensiero corre subito al nazionalsocialismo, che fece le cose in grande, ma non bisogna dimenticare che i primi teorici della discriminazione su base genetica (de Gobineau, Galton, Fisher) non erano tedeschi e che leggi sulla sterilizzazione obbligatoria dei «deboli di spirito», degli epilettici, ecc. erano state adottate anche in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Giappone. Senza dimenticare la consuetudine cinese di “scartare” i neonati di sesso femminile e, naturalmente, gli Usa dove le leggi che imponevano la sterilizzazione degli individui “socialmente inadeguati” rimasero in vigore fino agli anni Settanta (la prima fu approvata nel 1907).

Oggi l’eugenetica ha cambiato volto. Non si applica più, ci viene detto, come quella novecentesca, cioè su base coercitiva, collettiva, di stato. No, la nuova eugenetica è “liberale”, fondata sulla scelta individuale e sul libero mercato. Si pensa così, come ci ripetono i suoi sostenitori, di poter aggirare il discredito morale pendente sugli esperimenti di ingegneria sociale dei nazisti.

Ma le cose stanno davvero così? Non ne è affatto convinto Michael J. Sandel, uno dei più importanti filosofi statunitensi. Nel suo The Case against Perfection (Contro la perfezione, nella traduzione italiana apparsa presso Vita e Pensiero) Sandel mostra che l’eugenetica su base individuale non è affatto migliore per il fatto di essere volontaria.

Il problema sta nella stessa etica del perfezionamento propria dell’eugenetica, liberale o statale che sia. I progetti di “miglioramento umano” nascono infatti dalla volontà prometeica di ridisegnare la natura, a partire da quella umana, in conformità ai propri scopi e desideri. Questo significa una cosa soltanto: voler cancellare la dimensione del dono naturale.

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In un sano amore genitoriale queste due dimensioni (etica del miglioramento e etica del dono naturale) sono entrambe presenti, e ognuna delle due concorre ad equilibrare l’altra.

In altre parole, l’etica del dono naturale corrisponde all’amore di accettazione (accepting love), mentre l’etica del miglioramento è il fondamento dell’amore di trasformazione (transforming love).

Da una parte l’amore del genitore è un amore che accoglie incondizionatamente il figlio, accettandolo per come è. Per l’amore che accoglie il figlio non è – né può essere – l’oggetto di un proprio progetto o un prodotto della propria volontà, e tanto meno lo strumento della propria ambizione. L’affetto dei genitori non è una variabile dipendente delle qualità del figlio (che, a sua volta, non è una funzione genitoriale).

D’altro canto pure l’etica del miglioramento è indispensabile: amare un figlio vuol dire anche volere il meglio per lui. Perciò i genitori hanno il dovere di promuovere l’eccellenza del figlio, aiutandolo a scoprire e sviluppare il proprio talento e i propri doni.

«L’amore che accetta – scrive Sandel – afferma l’essere del figlio, quello che trasforma cerca il suo benessere». In questo modo ciascun aspetto dell’amore genitoriale bilancia e corregge gli eccessi dell’altro.

Nella prospettiva eugenetica questo delicato equilibrio si spezza. L’etica del miglioramento diventa un assoluto, elevandosi a idolo al quale tutto va sacrificato. Ma solo l’apertura al non cercato, al non scelto, al non progettato è in grado di arginare l’inclinazione umana alla padronanza. Saper accogliere l’inatteso frena la superba pretesa di avere il controllo totale sulla vita altrui.

Vedere la vita come un dono vuol dire infatti riconoscere che anche le nostre capacità non ci appartengono del tutto. Non sono solo il prodotto dei nostri sforzi, essendoci state donate alla nascita. È questo l’insegnamento implicito della natura: non tutto nel mondo è usabile.

Andreas Hofer


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