21/11/2017

Filosofia: c’è sempre la possibilità di scegliere il bene

Libertà di scelta: la filosofia ci insegna che la possibilità di scegliere liberamente il bene c’è sempre. La Redazione di sicuro non condivide i presupposti e tutte le conclusioni dell’etica kantiana. Ma la seguente esposizione evidenzia come persino il “padre dell’illuminismo” ritenesse essenziale la libertà di scelta e l’esigenza di non trattare mai l’altro come puro mezzo.

Filosofia: c’è sempre la possibilità di scegliere il bene

Chi non ha mai provato a raccontarsi che in fondo non c’è nessuna libertà, che una serie infinita di forze ci spingono, ci trattengono, ci frenano da tutti i lati, e alla fine non resta che adeguarsi alla corrente, seguire il corso. Tentare di sopravvivere ai sussulti della propria coscienza.

Ma coscienza di che cosa? Quanto spazio abbiamo, dentro di noi, asfissiati da tutto quello che da fuori viene a depositarsi, come in un magazzino virtuale in cui lo spazio non basta mai, ma pure continuano a stiparsi esperienze, ricordi, fatti, idee di ogni tipo?

Coscienza. Questa parola ci riporta di colpo alla realtà.

La stessa realtà che Immanuel Kant chiamava “fatto della ragione”: un’evidenza assoluta, incontrovertibile, che ognuno di noi sperimenta continuamente nella propria esistenza. Anche quando prova a giustificarsi raccontandosi le favole più inverosimili.

Nella Critica della Ragion Pratica, proprio in apertura, Kant ci parla di libertà. Perché è chiaro che senza libertà il solo pensare ad un’etica sarebbe folle. E ancora più folle pensare ad un disegno, ad un progetto, ad una natura umana da realizzare. Ad un Dio. E’ noto che il mondo fisico e il mondo morale vengono da Kant distinti e contrapposti, governato l’uno dalle leggi fisiche, l’altro dalla legge della libertà: cercherò di mostrare in sintesi almeno una ragione per cui questa distinzione è fondamentale per la salvaguardia della nostra libertà, quindi della nostra umanità.

Libertà umana è per Kant immediatamente evidente. Anche noi sperimentiamo ininterrottamente che la gioia che proviamo, unitamente al rammarico o al rimorso, mostra che siamo liberi di scegliere.

Ma se la scelta è libera, ciò comporta anche che ne siamo responsabili. E se sono responsabile, ne deriva anche che dovrò poi stabilire rispetto a chi o a che cosa si oggettiva la mia imputabilità. Persino per Kant (il padre dell’illuminismo e grande esponente di tale filosofia di pensiero, non dimentichiamolo) sono responsabile di fronte a me stesso, di fronte agli altri e di fronte a Dio.

Si tratta di tre punti di riferimento in certo qual modo interdipendenti e necessari per qualsiasi forma di etica. E certamente non a caso Kant parla di postulati imprescindibili: quale etica è possibile senza la pre-condizione della libertà umana? Ed è mai possibile un’etica che non tenga conto degli effetti della mia azione sul prossimo? E quale etica pos- siamo praticare, senza riferimento ad un bene che non è il mio o il tuo, e nemmeno il nostro, ma non lasciandosi rinchiudere in alcuna definizione contingente indica chia- ramente la sua disposizione alla Trascendenza, quindi ad un Assoluto?

E’ quindi chiaro che il punto decisivo di tutta la questione è la conquista della libertà. Qual è lo spazio effettivo della mia libertà? Stabilire fino a che punto sono libero significa mettersi in rapporto al perimetro della mia responsabilità: si tratta, ancora una volta, di un atto raziocinante. Io “devo” solo “quello che so”. Ecco quale è in questo caso la risposta kantiana: lo spazio della mia libertà è dato dal mio essere uomo, animale: ma razionale.

Sembra così che anche per Kant il male abbia un’essenza negativa, fondata sulla mancanza di essere. Tant’è vero che sembra anche man- care un principio pratico che permetta di intendere l’azione malvagia come liberamente compiuta dal soggetto agente. Secondo Kant: la libertà coincide con la ricerca e con la pratica del bene. Il male è sempre e comunque (anche) il frutto di un ragionamento errato del soggetto.

Questo appare particolarmente evidente nella disposizione che Kant ci dà circa l’interrogativo etico: è la ragione che indica di volta in volta il contenuto che la forma morale della mia azione deve prendere.

Una forma morale che il filosofo ha individuato in tre imperativi, che mirano a indicare a ciascuno il bene comune (e quindi anche individuale).

1) “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale”

2) “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni al- tro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.”

3) “Agisci in modo tale che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.

Sono tre formulazioni che dicono sostanzialmente la stessa cosa: la nostra moralità dipende non dalle cose che di volta in volta desideriamo, ma dal principio per cui le vogliamo; principio della moralità che non è quindi il contenuto, ma la forma (qui Kant sbaglia, poiché criterio della moralità non è solo la ragione della scelta ma anche l’oggetto della scelta stessa, ndr). E la forma dell’imperativo etico ci parla di umanità, di fini, di “legislazione universale” (ovvero di legge che possa valere per tutti, in ogni luogo ed in ogni tempo). Non ci parla di ciòcheèbeneeciòcheèmale “per noi”, ma ci parla di ricerca, di attitudine all’ascolto, al dialogo, al saper cambiare punto di vista.

E’ nel momento in cui proviamo ad agire in accordo a questo dovere universale – e non più in base al calcolo utilitaristico dei nostri piaceri – che, secondo Kant, possiamo realizzare un’azione pienamente morale.

Proseguendo nell’analisi del pensiero di Kant potremmo aggiungere però che la ragione è imperfetta. Almeno tanto quanto la volontà. Chi di noi non ha sperimentato che se c’è sempre una scelta giusta e una scelta sbagliata, la scelta sbagliata sembra a volte la più ragionevole, di certo la più facile: allora forse se un uomo va giudicato dalle scelte bisogna prendere atto che non si può pretendere che siano solo giuste. La nostra umanità si innalza allora a guardare anche a come abbiamo cercato di venir fuori dalle scelte sbagliate. La libertà, e soprattutto la libertà del bene, si manifesta proprio a partire dal male morale. Male che qualcuno osa chiamare, senza timore, peccato. Verrebbe da dire, e verrebbe da dirlo in molti sensi: un male inevitabile.

A me sembra che ci troviamo oggi proprio a questo punto: come società, come civiltà abbiamo fatto di tutto per dimenticare il legame originario e strutturale tra la libertà e il bene. Questo legame, paradossalmente, emerge proprio là dove l’uomo sceglie il male.

Eppure, solo questo legame è in grado di allontanare dalla storia dei singoli e dei popoli i mostri partoriti dall’arbitrio brutale della forza, delirio di onnipotenza, onnipotenza che sembra risiedere nella facoltà di oscillare infinitamente tra il bene e il male. Ma è una terribile illusione illudersi di dominare il bene e il male, riscrivendoli a propria misura. Se si toglie il carattere dell’assoluto al Bene si rescindono i legami con ciò che nella vita ha valore. E porta infine a sperimentare, direttamente, radicalmente, al limite della disperazione, che cosa significa pretendere di andare “al di là del bene e del male”: «Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato» (Proverbio cinese).

Alessandro Benigni

Fonte: Articolo apparso su Notizie ProVita di Luglio 2015, pp. 10-11


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