06/03/2019

I nuovi LEA affossano le naprotecnologie. Parla il genetista Bertelli

L’imminente approvazione del tariffario dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) rischia di esporre gli utenti della sanità a una ingiusta discriminazione. La penalizzazione andrebbe a riguardare segnatamente quelle coppie che, non riuscendo ad avere un figlio, preferirebbero optare, anche per motivi etico-religiosi, per le naprotecnologie, invece della procreazione medicalmente assistita. A colloquio con Pro Vita, il genetista Matteo Bertelli, direttore del Magi Group, centro di ricerca sulle malattie rare e genetiche, con sede a Rovereto (TN), ha spiegato i termini della questione, ponendo alla luce un paradosso: le cure per la fertilità, più efficaci e meno costose, rimarrebbero fuori dal sistema sanitario nazionale.

Dottor Bertelli, cosa sta succedendo con i Lea?

«Il precedente governo aveva varato i Lea con decreto del gennaio 2017, il quale entrerà però ufficialmente in vigore soltanto dopo l’approvazione del nuovo tariffario, che è imminente. Da parte mia, assieme a esperti come il professor Giuseppe Noia o la professoressa Elena Giacchi, abbiamo fatto convegni alla Camera e in Senato per illustrare l’efficacia delle naprotecnologie (il prefisso “napro” sta per NAtural PROcreation). Abbiamo prodotto vari documenti, tutti gettati nel cestino dagli ultimi due governi. Abbiamo chiesto di inserire le naprotecnologie, se non altro per dare la possibilità alle coppie di optare per questa tecnica, nel caso in cui la fecondazione artificiale destasse in loro delle riserve etiche. La differenza sostanziale è che nella fecondazione artificiale non interessa conoscere la causa che sta alla base dell’infertilità, quindi, alla donna viene applicato il protocollo standard, con la stimolazione ovarica, il prelievo degli ovociti, la raccolta dello sperma, la fertilizzazione in vitro, il trasferimento dell’embrione. Queste tecniche sono osteggiate dai cattolici perché, per applicare questa tecnologia, è sempre necessario produrre degli embrioni sovrannumerari che poi vengono eliminati oppure congelati e poi eliminati o, ancora, impiantati e poi soppressi selettivamente tramite l’aborto».

Perché le naprotecnologie sono più convenienti?

«Le naprotecnologie si basano su uno studio attento delle cause dell’infertilità, per poi poter agire in maniera mirata con cure e tecnologie che permettano di identificare il picco di fertilità e di agire su questo, per permettere alla coppia di concepire. Dai Lea sono stati tolti sia le naprotecnologie che i test genetici, utili per capire le cause di infertilità. Nella donna, ad esempio, andrebbero ricercate la sindrome da iperstimolazione ovarica, difetti di maturazione degli ovociti, letalità embrionale precoce e la empty follicle syndrome: tutte, però, sono assenti nel nuovo tariffario. Idem per l’uomo: andrebbero identificati i difetti della spermatogenesi primaria da difetti in singoli geni ma nel nuovo tariffario è inserito solo il difetto nel gene Catsper. Inoltre, mancano anche la sindrome di Kartagener e le discinesie ciliari primitive, che possono avere gravi conseguenze nella prole generata in vitro portando anche alla diffusione di un’infertilità genetica nella popolazione generata che dovrà poi a sua volta ricorrere alla fecondazione artificiale».

L’ostilità del Sistema Sanitario alle naprotecnologie è dovuto anche al loro costo?

«Tutt’altro: rispetto alla fecondazione artificiale, le naprotecnologie sono più economiche. La “;Pma” (procreazione medicalmente assistita) viene incentivata per motivi di business: in alcune regioni, i cicli sono consentiti anche a donne oltre i 43 anni (in Emilia Romagna stanno addirittura innalzando il limite a 46 anni) e, a quell’età, un bambino in braccio arriva a costare più di 500 mila euro. Se entrano in vigore i nuovi Lea, il paziente cattolico, quindi, è costretto a un bivio: o spende una fortuna per le cure naprotecnologiche in centri di un certo livello o si rassegna alla fecondazione artificiale, creando embrioni sovrannumerari, da congelare e sopprimere».

Quindi, la questione pone un problema non solo etico ma scientifico?

«Lasciando da parte il discorso sulla fecondazione artificiale, io dico che il Sistema Sanitario vuole impedire le naprotecnologie. I nostri metodi, in sede scientifica, non sono mai stati messi in discussione da nessuno».

La diagnosi prenatale è comunemente associata all’aborto terapeutico. Lei, però, ha lavorato su questo metodo allo scopo di curare il feto. Può parlarci di questo aspetto?

«Assieme al professor Noia, abbiamo iniziato a studiare due patologie, in cui la diagnosi prenatale può permettere una cura e una guarigione per il feto. Ho messo a punto due test, il primo dei quali permette di identificare i feti con igroma cistico benigno. Questo lavoro mi ha consentito di salvare tanti bambini che, oggi, godono di ottima salute. L’altro è un test genetico sulle polidattilie. Spesso basta un piccolo intervento di chirurgia plastica e il problema si risolve, però, spesso le polidattilie si risolvono nell’aborto, perché dietro di esse si nascondono malattie incurabili. Anche lì ho fatto uno studio che, una volta applicato, ha salvato molte vite. Ho presentato questo lavoro all’Onu di Ginevra, in occasione del congresso mondiale dell’Oms, un contesto molto laico, però il mio intervento è stato molto applaudito, perché comunque ha destato un grande interesse sul piano scientifico. Anche a Bruxelles, le mie ricerche sono state molto apprezzate. La cosa paradossale è che, al contrario, qui in Italia, Paese cattolico, c’è ostilità verso le nostre innovazioni».

Tornando ai Lea, cosa rischiamo se entreranno in vigore?

«Se passano, avranno l’effetto di una bomba atomica e ci vorranno anni per rimediare ai danni. Questi Lea rischiano di distruggere completamente la sanità, dandola in mano ai sistemi standardizzati. La mia paura è che, se la cosa diventa operativa, poi non sarà più recuperabile. C’è il rischio che i nostri centri chiudano e i nostri giovani ricercatori saranno costretti ad andare all’estero. Se non riusciremo a invertire la rotta, rischiamo di avallare uno dei più grandi errori della nostra storia sanitaria».

Luca Marcolivio

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